Al processo per l'omicidio di Saman, che vede imputati i genitori Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, lo zio Danish Hasnain e i cugini Ikram Ijaz e Nomanulhaq Nomanulhaq, è il giorno della requisitoria. L’attenzione è concentrata sul procuratore capo di Reggio Emilia Calogero Gaetano Paci che davanti alla corte d'assise ha esordito parlando del «più atroce, malvagio e aberrante dei delitti che si possa concepire, quello commesso dai genitori in danno della figlia e con la collaborazione dello zio e dei cugini». Saman Abbas, la 18enne pachistana era scomparsa da Novellara, nella Bassa Reggiana, il 30 aprile 2021, dopo essersi ribellata a un matrimonio combinato, con un parente, in patria. Il suo corpo venne ritrovato nel novembre 2022, su indicazione dello zio Danish. Gli esami successivi sui resti, non lasciarono spazio a interpretazioni: la giovane era stata uccisa. 

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La famiglia simile a «una 'ndrina calabrese»

Paci ha sottolineato che da «nessuno degli imputati è arrivato un cedimento, un sentimento di umana pietà verso l'orrore e lo strazio compiuto nei confronti di questa ragazza».

Il rappresentante della pubblica accusa ha poi evidenziato che «non c'è una prova regina ma una molteplicità di elementi di prova». Secondo il procuratore Paci, la struttura della famiglia Abbas è simile a quella di una 'ndrina calabrese. Nella requisitoria ha citato conversazioni successive all'omicidio di Saman, con protagonista il padre Shabbar, «da cui emerge la necessità di mantenere compatto il fronte familiare e parentale».

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Il ricordo di Maria Concetta Cacciola

Questo, ha detto Paci «è esattamente quello che prima dell'omicidio la scelta determinata e testarda di Saman aveva cercato di mettere in crisi. E cioè l'autorevolezza di Shabbar, come membro di una famiglia potente, che possiede tanti terreni in Pakistan, che nel suo villaggio agita il kalashnikov e spara in aria». Una vicenda, che ha detto ancora Paci, che prima di essere nominato capo della Procura reggiana era stato procuratore aggiunto a Reggio Calabria, ricorda una testimone di giustizia vittima di 'Ndrangheta: «Maria Concetta Cacciola, costretta dai familiari nel 2011 a ingoiare acido muriatico».