E anche quest’anno con la saga delle processioni delle Madonne, dei San Rocco e delle consorterie che vogliono portare i Santi o dei capi bastone che pretendono gli inchini, abbiamo dato. Ancora una volta abbiamo sfamato la voracità dei media sempre assetati e affamati di scandalismo, soprattutto quando si tratta di Calabria. E ancora una volta l’ambiguità di parroci, vescovi, sindaci, associazioni, confraternite, è andata in scena. L’ultima della serie: la processione di San Rocco ad Acquaro di Cosoleto. Territorio dominato dalla potente cosca degli Alvaro.

 

Negli anni passati si erano distinti Cinquefrondi, Sant’Onofrio, Reggio Calabria e tanti altri comuni della Calabria. L’anno scorso a Zungri la processione è stata fermata dalle forze dell’ordine perché tra i portantini c’era il capo cosca. Il presunto boss ci rilasciò finanche un’intervista per rivendicare il suo diritto a portare il Santo. La polizia rese noto qualche giorno dopo che l’intervento dei militari registrò ostilità nella folla dei fedeli. Qualche anno fa commentando un altro episodio del genere, mi permisi di esprimere perplessità sulle affermazioni di un noto antropologo, il quale, in un libro aveva espresso una dura disamina su questi episodi, soprattutto in relazione alla tiepida reattività dell’opinione pubblica.

 

A distanza di qualche anno debbo ammettere di aver sbagliato, aveva ragione quell’antropologo. Credo che dobbiamo umilmente ammettere che alcune delle nostre comunità siano malate. Incapaci di discernere il bene dal male. Se di fronte al perpetuarsi di questi episodi, infatti, non corrisponde la giusta indignazione degli abitanti dei paesi e delle contrade interessate, i quali, anzi, più delle volte giustificano la presenza di pregiudicati e malandrini sotto le stanghe delle sacre statue, ciò vuol dire una sola cosa: qualcosa non funziona nella coscienza civile della nostra gente. E, d’altronde, se si arriva a tollerare che gaglioffi, capi bastone e pregiudicati abbiano diritto a portare le Madonne, con la motivazione che la Beata Vergine è di tutti, o come principio di accoglienza cristiana, significa che il verme sta consumando la mela dall’interno con tutto il suo carico di marciume.

 

La cosa più grave è che tali giustificazioni, molto spesso, siano espresse dagli stessi parroci, ciò, inevitabilmente, aggrava la malattia sociale. Tutti in Calabria sanno perfettamente che i malandrini hanno bisogno di portare i Santi, ricevere inchini processionali, essere protagonisti delle feste patronali perché hanno bisogno di ricevere legittimità sociale e confermare il loro potere sul territorio. Lo sanno perfettamente i cittadini “perbene”, gli incensurati, ma lo sanno ancor di più i sacerdoti. Verso una tale deriva non ci sono giustificazioni teologiche.

 

Tali episodi avvengono per tre motivi molto semplici: denaro, collusione e paura. L’ultimo di tali motivi svela una Chiesa popolata da numerosi “Don Abbondio” e assolutamente inadeguati a guidare alcune parrocchie. Il resto è chiacchiera. Ipocrisia. Se ricopri una funzione, sia essa civile o religiosa, in territori infestati di ‘ndrangheta, la paura è legittima, ma il coraggio è un dovere. I malandrini, i boss, gli aspiranti boss, quelli vicini ai capi cosca, hanno bisogno di segnali forti e simbolici verso la comunità. Hanno bisogno di affermare: qui comandiamo noi! Hanno bisogno di esercitare una sorta di egemonia culturale.

 

Il Santo Patrono, le veneratissime Madonne, sono i totem che caratterizzano le identità di villaggi, paesi e città al Sud. Esercitare autorità o meglio far finta di servire fedelmente tali totem, significa esercitare l’autorità sul territorio e i suoi abitanti: «Vedete? Io sono uno di voi, sono malandrino e però faccio parte a pieno titolo del tessuto sociale e della comunità cristiana». In tal modo si autolegittimano di fronte alla comunità con la benedizione dei vari Don Abbondio, i quali, magari, anche grazie a sostanziose offerte, spesso, fanno finta di non vedere. Uno Stato sano e una Chiesa sana, invece, devono contrastare queste simboliche manifestazioni di potere. Un malandrino non può rappresentare un esempio. Chiesa e Stato devono spezzare e mortificare una tale pretesa.



Papa Francesco scelse la Calabria per lanciare contro mafiosi e ‘ndranghetisti il suo storico anatema: la scomunica. Purtroppo molti dei suoi confratelli, nonostante quella durissima presa di posizione, preferiscono ancora le tranquille acque del donabbondismo, piuttosto che le acque movimentate che preparano le nostre comunità alla rinascita morale e culturale.

 

Questa consuetudine va spezzata radicalmente e va spazzata via anche la sub cultura di un’opinione pubblica, che, in fondo, ritiene legittimo che questi gaglioffi la facciano da padroni in processioni e fiere. Questa opinione pubblica ha bisogno di esempi forti e rieducativi, che vadano oltre le vuote manifestazioni sulla legalità, ormai diventate sterili esercizi da passerella. Tale malattia ha bisogno di cure radicali, di bisturi che servano ad estirpare il tumore. Le pillole ormai non servono più. I vescovi hanno il dovere di imporre scelte forti. I parroci devono ripulire le confraternite e comitati manu militari, diversamente, vanno allontanati. La cultura dei Don Abbondio ha diffuso l’epidemia. I mafiosi, gli ‘ndranghetisti, i personaggi vicini alle cosche sono dispensatori di morte e prevalentemente sono irredimibili. Giovanni Paolo II da Palermo gridò: «Convertitevi». Quel consiglio lo seguirono in pochi. E, comunque, la conversione deve avvenire in maniera silenziosa, non c’è bisogno di esibirla portando santi in spalla. La Chiesa e la società cattolica saranno in grado di una catarsi così radicale? Staremo a vedere.

 

Pasquale Motta