Le finali di Wembley e Wimbledon rappresentano il paradosso di una nazione capace di oscillare fra il peggio e il meglio con la stessa facilità. Solo quando finirà la sudditanza del Mezzogiorno e l'equità territoriale sarà davvero realizzata troveremo un centro di gravità permanente (ASCOLTA L'AUDIO)
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Tennis...: pomeriggio, per la prima volta un italiano, Matteo Berrettini, gioca la finale del torneo di Wimbledon; e la sera, la nostra nazionale di calcio, sempre a Londra, affronta l'Inghilterra per il primato continentale.
Il Paese più strano, bello e difficile del mondo, il nostro: il più scassato d'Europa, ma “quello da battere”, per una straordinaria individualità (Berrettini) e per la capacità di salire ai vertici in gruppo (una squadra senza titolari e riserve, ma tutti intercambiabili). In teoria, questa sarebbe la sintesi dei valori e del modo di essere degli italiani, invece sembra la foto di un Paese capace, pur potendo tanto, di oscillare fra il peggio e il meglio, con la stessa facilità, senza trovare un “centro di gravità permanente”. Questo, mentre si sta per votare in Calabria e in molte città (incluso Napoli) e l'unica cosa quasi certa è l'incertezza (il quasi sta a indicare giusto quello di cui si sarebbe fatto volentieri a meno: la continuazione del peggio che è avanzato).
Eppure... era appena sei anni fa: un'altra storica partita di tennis, per la prima volta a contendersi la coppa nella finale degli Open US a New York, erano due italiane, anzi entrambe pugliesi: Flavia Pennetta e Roberta Vinci. Le elezioni regionali, fresche fresche, avevano disegnato tutto il Sud di un solo colore: centro-sinistra, tutti i presidenti erano del Pd e del Pd era anche il capo del governo, Matteo Renzi, segretario nazionale del partito. Non era mai accaduto in un secolo e mezzo di unità (vabbè, sulla carta) d'Italia. Occasione unica per avviare, d'intesa con il governo e persino il partito (tutto fra loro e loro) una operazione storica di risanamento delle storture, del divario, di “coesione meridionale” che avrebbe portato a un Paese più equo, più efficiente.
Provate a immaginare se fosse successo al Nord, dove, sugli interessi territoriali e non importa se a danno del resto d'Italia o persino solo delle regioni più povere, fanno blocco i partiti avversarsi, compattandosi in quel PUN (partito unico del Nord) che va dalla Lega al Pd. Hanno un solo comandamento che li accomuna: acchiappare quel che è di tutti e farlo proprio (si sono fatti regalare persino le centrali idroelettriche, valore 350 milioni di euro, diventate demanio regionale al costo di zero euro).
Qualcuno ci credette a Sud, nel 2015, e ci provò: Michele Emiliano, presidente della Puglia, all'inaugurazione della Fiera del Levante, invitò, insieme al presidente del Consiglio, come da tradizione, i colleghi delle altre Regioni meridionali, per concertare un'azione comune. Quello che accadde rivelò l'idea che hanno del Mezzogiorno lorsignori: i presidenti meridionali furono pesantemente intimiditi, girò voce (diciamo così...) che avessero ricevuto telefonate da Palazzo Chigi: guai a chi si fosse fatto vedere a Bari! Rimasero tutti a casa (per un attimo ci eravamo illusi: magari non hanno palle sufficienti a farsi vedere lì da soli, ma spalleggiandosi a vicenda, modello “gli altri ci sono andati, allora, io...”, ci poteva stare). E per fugare ogni dubbio sullo schiaffo al terrone che vuole rialzare la testa, Renzi dando prova del suo livello di sensibilità istituzionale, disertò la Fiera e se ne andò a New York a vedere la sfida pugliese sul tetto del mondo del tennis.
Il Pd la pagò carissima, Renzi ancora di più (il fu “signor 40 per cento”, oggi, con percentuali da tracce di sodio in acque ultraleggere, è costretto a fare lo scassapagghiara, per far sapere che c'è: pollicino seminava molliche, lui macerie). Secondo voi, se i presidenti delle Regioni meridionali avessero avuto più coraggio, avremmo ora il treno per Matera? L'alta velocità sino in Sicilia? La superstrada jonica completata? Il Ponte sullo Stretto? Magari, tutto in questi sei anni non ancora, ma di sicuro non staremmo peggio di un secolo fa, con mille chilometri di ferrovia in meno nel Mezzogiorno e velocità media più bassa che agli inizi del Novecento.
Lo specchio di quella sudditanza è lo stato del Pd in Calabria, oggi: sta al governo con Draghi, gestisce potere e soldi, carriere, ma non riesce a trovare un candidato decente: uno (Irto) se ne è andato per beghe interne, l'altra (Ventura), per una interdittiva antimafia a un'azienda di famiglia, e l'inutile pellegrinaggio di dirigenti nazionali fra sezioni e province serve solo a rendere palese quanto il partito sia distante, ormai, dalle sue rappresentanze locali e queste dalla gente. Le persone di valore di quell'area politica sono state per troppo tempo tenute nell'angolo da un club di affari e oggi non hanno più la forza o la voglia di farsi valere.
Il centrodestra non è messo meglio: appare più compatto, ma mettendo insieme gli scarti di quel sistema di potere che (insieme al centrosinistra) ha ridotto la Calabria in queste condizioni. E anche lì, le persone che vorrebbero essere rappresentate meglio e magari impegnarsi, si tengono in disparte, o non vanno a votare. Mettendo insieme i delusi e gli schifati da destra a sinistra (e pescando pure nel naufragio dei cinquestelle), si avrebbe il primo partito per numero di voti (anzi: di votanti, perché non votano).
Vuol dire che i numeri per cambiare destino ci sono; e ci sono le persone giuste, pur se restano a bordo campo; c'è la ragione principale perché in Calabria si faccia e riesca quello che altrove può essere ancora rimandato: nessuna regione è messa male come la Calabria; ed è costretto a trovare una soluzione al problema chi ne è ormai sopraffatto e non ha più scelta, salvo la fuga (le famiglie, però, sono stufe di veder partire i loro figli); c'è anche la circostanza favorevole: siamo nel pieno di una rivoluzione tecnologica e culturale, e mentre le capitali della declinante civiltà industriale fanno fatica a riconvertirsi in digitale, appesantite dalle cattedrali sempre più vuote e meno redditizie, le aree meno sviluppate partono leggere da zero e vincono (guardate dove sono i “giacimenti” digitali, ora nel mondo: dall'India, con i colossi di Bombay, al Brasile, alla Cina, che sforna ogni anno dieci volte gli ingegneri dell'innovazione degli Stati Uniti.
Ricordo una conferenza che feci a New York, con il capo-dipartimento di una delle maggiori agenzie d'affari del mondo, la Merrill Lynch: figlio di un artigiano di Bombay, appena laureato, era stato assunto da una società di non so più quale provincia cinese, e in pochi anni ne aveva fatto salire alle stelle il fatturato; a New York videro il dato, lo mandarono a chiamare, un colloquio, e gli affidarono 4 miliardi di dollari). Il mondo sta ripartendo dalle zone già peggio messe, dal suo Sud. La Calabria è Sud e ha anche le persone capaci per una tale rivoluzione.
Cosa le tiene ferme? Quasi sempre, l'idea che da una condizione così disastrata si possa essere tirati fuori solo grazie all'opera di giganti, donne e uomini eccezionali. Non è così. Lo dimostrano la psicologia sociale e le tante storie di fenomeni della porta accanto che pensiamo credibili e possibili solo se la porta non è accanto alla nostra e magari manco la nostra. Dalla psicosociologia ci arriva la formula che dovremmo ricordare più spesso: “Persone ordinarie fanno cose straordinarie”. E ci riescono, perché qualcuno comincia e poi le fanno insieme. Straordinaria è l'impresa, e questo fa sembrare straordinario chi la compie. È un inganno ottico. Insomma: l'avete visto “Forrest Gump”?
Si può fare. Ma bisogna volerlo, senza cercare giustificazioni al non provarci. Berrettini oggi scende armato di racchetta a Wimbledon; i tennisti sanno quando il loro avversario ha perso fiducia nella vittoria: comincia ripetutamente a massaggiarsi il gomito, una spalla, un ginocchio... Sta comunicando la scusa per perdere. Chi vuole vincere, anche se ha davvero un dolore che lo limita, non lo mostra, lo nasconde, per non dare un vantaggio all'avversario.
Verso i vent'anni decisi di darmi una base di cultura politica e mi misi a leggere furiosamente dal “Mein Kampf” di Adolf Hitler al “Capitale” di Karl Marx. Ma ricordo ancora che capii di più da una nota fondo-pagina che dalla mappazza di quelle pagine (vado a memoria): “Un dato uomo è re, in quanto gli altri sono sudditi. E intanto gli altri sono sudditi, in quanto egli è re”. Insomma, solo se accettiamo di essere sudditi “egli è re”. E si è portati a inchinarsi quando tutti si inchinano, si è indotti ad accettare le situazioni che tutti accettano.
C'è una combinazione astrale in Italia e in Calabria e pure una giornata storica di tennis e calcio (individuo e squadra). Comunque finiscano queste sfide (incrociamo le dita) vedremo dei vincenti all'opera, oggi. Lo sono diventati, perché non hanno accettato l'idea di perdere. Siamo uomini o caporali? Direbbe il sommo. Non sta scritto da nessuna parte che la Calabria non debba essere la prima regione italiana.