C’è il rischio di disordini sociali in Italia dopo l’abolizione del reddito di cittadinanza? Domenico Cersosimo, economista dell’Unical e vicepresidente della Regione Calabria dal 2008 al 2010, dice che le probabilità ci sono. «Basti pensare che la misura coinvolgeva, secondo alcune stime, fra gli 800mila e il milione di nuclei familiari in Italia, ovviamente diversamente distribuiti. Al Nord si parla di circa il 6% dei nuclei familiari, al Sud arriviamo al 14 e in alcune città addirittura ad un terzo. Ma non è solo un problema di numeri».

In che senso?
«C’è un problema di rappresentanza perché manca un soggetto che si faccia carico di questo problema sociale per incanalarlo in forme di protesta organizzate, né un sindacato né un partito politico. Così stiamo assistendo a forme di protesta spontanee che diventano magari un problema di ordine pubblico ma non sono poi in grado di esprimere istanze concrete. Lo stiamo vedendo a Napoli, Roma in altre città».

Sembra una nuova questione meridionale, questa…
«In parte sì; nel Nord la misura ha meno rilevanza per le condizioni economiche date. Allora il problema si fa davvero grave perché il Sud ha notoriamente un problema di rappresentanza e peso politico e difatti non mi pare che ci sia qualcuno che si stia facendo politicamente carico della vicenda. Forse proprio perché la vicenda riguarda maggiormente il Meridione, il Governo è andato in maniera così netta prima nella legge di bilancio e poi con il famoso sms mandato dall’Inps».

Però ha messo in campo misure alternative. Che ne pensa dei nuovi aiuti di Stato?
«Che non sono minimamente paragonabili. Il reddito di cittadinanza è una misura universale che riguarda chiunque sia in determinate condizioni. Una misura che esiste in tutta Europa e che l’Italia da ultima ha approvato. Questo Governo l’ha abolita per dare 350 euro di carta acquisti solo a determinate categorie di poveri. Questa carta mi pare una sorta di paternalismo autoritario. Dicono ai beneficiari cosa possono comprare e cosa no, l’aceto sì quello balsamico no, il pane sì e… che so, i biscotti no. Come se il povero fosse incapace di stabilire da solo di cosa ha bisogno. Io penso che una cosa del genere faccia andare indietro il Paese di molti anni».

Ma poi c’è l’accompagnamento al lavoro per chi è “occupabile” e non può beneficiare della carta acquisti.
«Il reddito di cittadinanza si basava su due pilastri: quello solidaristico e quello dell’accompagnamento al lavoro. Il più grosso fallimento del reddito è stato proprio quest’ultimo. Si è avuto qualche risultato nel 2021 quando siamo usciti dalla pandemia e grazie al Superbonus è ripartita l’edilizia. Lì c’è stato un calo del 7% delle richieste di RdC. Ulteriore dimostrazione che la gente ha bisogno, non solo economico, di lavorare. Quando l’economia tira, la gente preferisce andare al lavoro piuttosto che stare a casa o al bar in piazza».

Quindi lei non scommetterebbe sul collocamento degli occupabili?
«Spero ovviamente di sì, ma la situazione macroeconomica frena il mio proverbiale ottimismo. L’economia in Italia è ferma da 30 anni. Da molti anni abbiamo tassi di crescita del Pil dello 0,5% contro il 18 della Cina o il 12 dell’India. Al punto che gli economisti parlano di stagnazione secolare. Tutto questo ovviamente si ripercuote sul mercato del lavoro che è molto più rigido, risponde meno alle dinamiche del mercato per cui se il Pil aumenta dell’1%, l’occupazione sale solo dello 0,2%. Questo per una serie di motivi fra cui anche l’innovazione tecnologica che riduce o uccide il lavoro. Per fare la stessa cosa, grazie alla tecnologia, servono meno persone e meno tempo. Allora il problema è proprio la domanda che è debole, precaria, sottopagata. Non basta il lavoro per uscire dalla povertà come in passato. Oggi c’è chi lavora ma guadagna sotto i mille euro e non riesce a mantenere una famiglia. Pensare che il mercato da solo risolva il problema è una teoria iperliberista che contrasta con una destra che si definisce sociale, ma su questo versante fa davvero poco».

In effetti le dinamiche salariali in Italia sono ferme.
«Sono immobili da vent’anni e questo contribuisce a ridurre il potere d’acquisto delle famiglie. Per questo non credo che l’abolizione del RdC aiuterà le imprese a trovare manodopera. Un ragazzo continuerà a rifiutare un lavoro a 300 euro al mese non perché preferisce stare sul divano ma perché si sente mortificato».

E come se ne esce da questa situazione?
«Servono politiche pubbliche mirate. L'Europa l’ha capito e non a caso ha messo in piedi politiche keneysiane come il Pnrr che significa investimenti pubblici per smuovere il mercato che da solo non può regolare tutto. Poi si dovrebbe intervenire anche sui famosi extraprofitti. Ci sono settori che con la pandemia non hanno vissuto nessuna crisi, anzi hanno visto lievitare i loro profitti scaricando sui consumatori gli aumenti dell’energia o delle materie prime con ulteriori surplus. C’è poi il problema fiscale che in Italia è enorme. Basti pensare alla vicenda Berlusconi, c’è stato un passaggio enorme di patrimoni quasi esentasse. Non entro nei meandri della flat tax perché sarebbe lungo ma è un altro meccanismo che premia chi ha grandi patrimoni. Penso invece che il problema sia quello di una migliore redistribuzione delle risorse».

E per frenare l’inflazione?
«Anche qui il pubblico dovrebbe intervenire, ma non come sta facendo la Bce con la manovra sui tassi d’interesse. Questa non è inflazione dovuta ad un eccesso di domanda come successo negli anni del boom economico per cui agendo sui tassi d’interesse diminuisce il denaro in circolazione e si abbassano i prezzi. Questa è inflazione che viene dall’offerta. Allora anche lì bisognerebbe intervenire perché secondo Bankitalia il potere d’acquisto delle famiglie è diminuito del 10% mentre i profitti sono aumentati del 30%. È una forbice che non conviene a nessuno. Anche la nostra Costituzione ricorda che l’unico scopo dell’impresa non è solo il profitto, le imprese non possono fare come gli pare come nel Far West, hanno anche obblighi sociali e lo Stato deve in qualche modo portarle a rispettarli. Non è vero come dice qualcuno che non ci sono alternative al “draghismo”, alle politiche economiche ultraliberiste. Ci sono, bisogna discuterne».