Sedie riposte, tavolini pieghevoli accatastati, dehors vuoti. C’è chi da poco passate le 17 inizia a smontare tutto, chi ha clienti che rosicchiano fino all’ultimo minuto di normalità possibile prima di alzarsi, mentre tavoli e sedie attorno scompaiono come un’isola mangiata dalla marea. «Signori, per favore, sono le 17.58 non si può oltre, non si può più». Qualcuno insiste con delivery e asporto, «perché almeno ci provo», chi abbassa la serranda, chi ha deciso di non alzarla per nulla. Anni di proclami sull’imprenditoria giovanile, femminile, l’Italia delle piccole imprese, delle botteghe, del doc, della filiera corta, delle produzioni locali come antidoto all’emigrazione, dei progetti culturali che potevano diventare progetti imprenditoriali, attorno ad ascolti, palchi, sperimentazioni, suonano come una beffa. Le vie dei locali si svuotano rapide, nelle altre, vicine, passeggi e passaggi durano poco.  

In strada non c’è un’anima

Ancor prima che i negozi calino la saracinesca, in strada non c’è più un’anima. Nessuno ha dichiarato il coprifuoco, ma è come se lo avesse fatto. È mancato solo il coraggio di dirlo. Qualche luce – all’interno di bar, locali, pizzerie- resta accesa. Per protesta, per resistenza, per rabbia, per impotenza.  

Perché – avevano detto - «andrà tutto bene». Perché – avevano promesso – torneremo alla vita di prima. Con più prudenza, magari. Ma il peggio è passato. E invece no, non è andato tutto bene e la vita di prima, o il suo simulacro è durata lo spazio di mezza estate. Poi i contagi sono tornati a salire, i reparti a riempirsi, le terapie intensive a scoppiare, medici e infermieri a stento usciti dal burn out dei mesi più duri si sono trovati – ancora- con i segni della mascherina a tagliare la faccia.  

Si ritorna nell’emergenza

E si è tornati ad affrontare la pandemia senza una strategia. A rincorrerla. A chiamare “emergenza” una situazione nota e prevedibile da mesi, che nessuno, né governo, né ancor meno la Regione si sono preparati ad affrontare. Con i trasporti locali pieni a scoppiare alla riapertura delle scuole, con le classi pollaio di sempre, le dotazioni tecnologiche rimaste promesse e intere aree del Paese in cui una connessione ad internet è più una scommessa, che una certezza. Con le Rsa che tornano focolai, con una sanità pubblica zoppa mentre la privata ha continuato a incassare fondi pubblici, senza medici, senza infermieri, senza protocolli, con sistemi che si inceppano, i tamponi che non bastano, i laboratori saturi, le Asp e gli ospedali nel caos, i reparti di pronto soccorso allo stremo. 

Con il fuso orario di mesi, ci si accorge tardi di cosa non è stato fatto, dei soldi stanziati per gli ospedali finiti chissà dove, delle assunzioni rimaste progetto, dei precari rimasti tali, di mesi di lockdown buttati al vento, di un Paese ancora fragile e incapace di mappare l’epidemia che lo sta mettendo in ginocchio. E ancora pavido nel cercare soluzioni, o nel leggere il Paese reale, di statistiche che si preferisce ignorare.  

I ristori per le categorie colpite

«Bisogna limitare la mobilità, per questo bisogna limitare la socialità» dice il governo che cristallizza la vita di ognuno nel tempo funzionale all’orario di lavoro e produzione. E tara bar e ristoranti su questo. E tira giù le saracinesche a cinema, teatri, palestre, piscine, associazioni culturali in cui non c’è più diritto di riunione, congresso o convegno. E domicilia la scuola di quegli studenti che in casa sono in grado di stare da soli, mentre i genitori, magari, continuano a salire su mezzi sovraffollati, andare a lavorare in fabbriche e uffici stracolmi, senza che nessuno – nel pubblico e nel privato – abbia adottato programmi di screening periodico per i dipendenti.  

«Ma arriveranno ristori e incentivi» dicono dal governo, mentre la Regione fa la vacca e simula indignazione, tacendo sul sottobosco di lavoro nero, grigio, sottopagato che ha volutamente ignorato. Perché tutto è filiera. Dietro un ristorante, un bar, un locale, una palestra, una piscina ci sono fornitori e produttori, ma soprattutto un esercito di fantasmi. Camerieri, cuochi, magazzinieri, facchini, inservienti, uomini e donne delle imprese di pulizie, manutentori ma anche copy, social media manager, creativi e comunicatori veri o presunti tali, schiavi da tastiera.  Invisibili del tutto o quasi, figli e legittimi eredi di anni di controriforme del lavoro e precarizzazione selvaggia.  

Lavoratori fantasma

Sono quasi tre milioni e mezzi di persone, calcola l’Istat, con la Calabria per capitale. Ma potrebbero essere molti di più, perché ancor più ampia è la platea di chi ha contratti così deboli, da essere – legalmente – tagliato fuori da ogni tipo di aiuto o sostegno. Quelli che vanno avanti di rinnovo in rinnovo ogni trenta giorni, con un pezzo di carta con su scritto part-time ma che significa full time, obbligato a inghiottire le 18 ore che diventano 40 per uno stipendio parente di una mancia, a costo di non trovarsi per strada e di fronte a un gigantesco "e mo?". Quelli affittati da grandi agenzie e piccole agenzie interinali, che magari si ritrovano senza neanche i contributi necessari per chiedere indennità che spettano loro di diritto, quelli in mano a padroni e padroncini che se ne infischiano dei contratti e collezionano mesi di stipendi non versati e di fronte alle legittime richieste invitano a «comuni sacrifici», mentre accumulano proprietà e ramazzano finanziamenti «perché bisogna prepararsi per il dopo». Quello che per molti lavoratori è più chimera che prospettiva.  

Ma nei programmi istituzionali questo Paese non c’è. Nel piano di aiuti o indennizzi, questi lavoratori – già dimenticati nel corso del lockdown – sono rimasti fantasmi. Non esiste un blocco degli affitti o dei tributi, non è previsto un reddito di emergenza universale, non c’è neanche un motivo in più per denunciare il datore di lavoro che ti ha costretto ad essere schiavo. C’è solo una condanna a tirare a campare e a giocarsi il futuro su una roulette, in cui non si punta su rosso o nero, ma su rischiare il Covid19 o la fame.  

La pandemia non si ferma 

Perché l’epidemia c’è, morde, i contagi crescono e sono in pochi – folli, ciechi o interessati – a negarlo. E le curve forse sono anche peggio di quanto non le si racconti. E lo vede anche chi chiede disperatamente di poter continuare a lavorare, che non si spiega perché – se il problema c’è – solo alcuni settori debbano pagare e al loro interno alcuni più di altri. Se l’epidemia morde, le chiusure siano rigorose e proporzionate, i lockdown tarati sulle specifiche realtà territoriali e non di categoria, le strategie orientate a una prevenzione rigorosa che passi dalla ricerca dei positivi, dalla predisposizione di strutture per garantire loro un reale isolamento, da un rapido potenziamento della sanità. E che questa volta il prezzo dei sacrifici non lo paghino i soliti noti. Ma per adesso, ci sono solo tavolini chiusi e sedie accatastate.