Per quel che riguarda il Reddito di cittadinanza «si continua a tutelare chi non può lavorare, disabili, anziani, famiglie senza redditi con minori, donne in gravidanza, ma per gli altri il Reddito di cittadinanza viene abolito nel 2023», ha detto come sempre senza troppi fronzoli Giorgia Meloni durante la conferenza stampa di presentazione della prima manovra del suo Governo. Siamo lontani dall’abolizione tout court annunciata in campagna elettorale, ma il periodo economico generale e il pericolo di ulteriore risalita nei consensi del M5s hanno indotto la maggioranza a più miti consigli.

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Reddito di cittadinanza, cosa cambia

L’idea attuale di fondo è che il Rdc nel 2023 non potrà essere percepito per più di otto mesi complessivi e decade al rifiuto della prima offerta di lavoro. Ne abbiamo parlato con Francesco Aiello, docente ordinario di Economia all’Unical e presidente del think tank “Open Calabria” che studia proprio i fenomeni economici calabresi.

Professore, innanzitutto proviamo a circoscrivere il fenomeno?
«In Italia, nei primi nove mesi del 2022 i nuclei familiari che hanno ricevuto il RdC sono 1,49 milioni, interessando 3,4 milioni di persone. Il 2021 rappresenta l’anno di maggiore utilizzo del sostegno al reddito, con 1,6 milioni di nuclei percettori e 3,76 milioni di persone coinvolte, mobilitando 8,38 miliardi di euro. Altamente concentrata è la distribuzione del RdC per area geografica: nel 2022 il 63% dei nuclei percettori è residente nel Mezzogiorno d’Italia (60% nel 2021), il 21% a Nord e il 16% nel Centro. Aggregando i dati comunali per regione, emerge che la percentuale media di percettori più elevata si ha in Calabria: le famiglie con reddito di cittadinanza sono, in media, il 15% delle famiglie calabresi. Segue la Sicilia (14%) e la Campania (13%). Le famiglie che ricorrono al sussidio con la più bassa frequenza sono quelle residenti in Trentino Alto Adige (3% delle famiglie totali), Friuli Venezia Giulia (2.3%), Emilia Romagna (2.8%), Veneto (2.1%) e Valle d’Aosta (2.1%)»

In una ricerca di OpenCalabria però provate a smontare il mito di un RdC largamente diffuso solo al Sud. I dati che ci ha appena forniti sembrano dire altro…
«Se guardiamo i valori assoluti è assolutamente così. Ci sono però dei fenomeni che non possiamo sottovalutare. A partire da quelle che possiamo definire le povertà delle metropoli. Se caliamo questi dati a livello comunale scopriamo, ad esempio,  come nelle aree urbane di molti grandi comuni del Centro-Nord la presenza di nuclei percettori del reddito di cittadinanza sia ad elevata intensità. Alcuni esempi: nel comune di Torino le famiglie con RdC sono il 10% del totale, a Roma il 7.6%, a Milano e Genova il 6,9%, a Bologna e Firenze il 4.1%. Dati molto vicini quindi ai valori del Mezzogiorno».

Senta ma scendiamo ancora più nel dettaglio. Quanto pesa il Rdc sulla spesa pubblica?
«Il RdC mobilita circa 8-9 miliardi all’anno, ossia una percentuale molto bassa del PIL italiano (circa lo 0,05%). Se, invece, consideriamo le spese del bilancio dello Stato (al netto dei tassi di interessi), la quota assorbita dal RdC è di circa 1,5%. Si tratta, evidentemente, di spesa a sostegno dei nuclei poveri del paese che è marginale nell’impianto generale della spesa pubblica Italiana».

Eppure il nuovo Governo voleva abolire la misura, invece ci spiega quali modifiche del RDC sono state inserite nella legge di bilancio 2023 approvata dal CdM?
«Fino ad Agosto non succederà alcunché. Gli attuali percettori continueranno a ricevere il sussidio. Durante questo periodo, gli occupabili dovranno seguire corsi di formazione che saranno obbligatori e che, nelle intenzioni del governo, consentiranno l’inserimento del mondo del lavoro. Dopo questa fase di transizione e di formazione, il RdC dovrebbe essere eliminato per le persone che possono lavorare».

Quando vale in termini monetari questa modifica?
«Circa 750 milioni di euro, che serviranno a coprire una minima parte dei 35 miliardi di euro previsti dalla legge di bilancio».

Qual è la sua opinione di questa modifica?
«Credo che si sia solo rinviata la soluzione del problema, perché il Governo ha legittimamente pensato di non introdurre provvedimenti radicali che avrebbero lasciato all’improvviso 3,4 milioni di persone senza sussidio. L’impatto sociale sarebbe stato devastante, soprattutto in questa fase di profonda crisi economica  che sta attraversando il paese e soprattutto a Sud e in Calabria (il 12% delle famiglie calabresi percepisce il RdC)».

Che succederà dopo la fase di transizione?
«L’aspettativa del Governo è che le persone che saranno formate potranno essere collocate nel mercato del lavoro. È probabile che questo si verificherà per una parte degli attuali percettori, ma è altamente probabile che della platea di 660mila che oggi sono beneficiari non occupati, una proporzione significativa continuerà ad essere disoccupato. Il punto, quindi, è cosa si prevede di fare tra un anno».

La sua idea a riguardo?
«L’occupazione si ha quando si verifica una banale condizione economica: a fronte di chi offre lavoro, i lavoratori, deve esserci qualcuno che è disposto ad assumere, le imprese. I corsi di formazione che il Governo pensa di attivare potranno essere efficaci, poiché auspicabilmente miglioreranno le condizioni di occupabilità dei percettori del RdC, ma per entrare nel mondo del lavoro è necessario che le imprese assumano e che la professionalizzazione ottenuta coinciderà con quanto richiesto dalle imprese. Temo che queste condizioni non saranno soddisfatte, almeno nel breve periodo e sicuramente non nelle regioni del Mezzogiorno d’Italia».

Facile a dirsi, a farsi…
«Deve essere chiaro a tutti che il RdC è la soluzione temporanea di un problema atavico: non avremmo bisogno di schemi di protezione del reddito se il paese ricominciasse a crescere. È difficile creare nuova occupazione in assenza di imprese che investono e che, quindi, assumono».

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