«Ve ne prego, non dovete scappare dalla Calabria. Dovete lottare, resistere e combattere una guerra culturale, sociale e civile affinché si possa contrastare la mafia e la ‘ndrangheta». Esordisce così il giornalista Michele Albanese nell’aula Solano dell’Università della Calabria, protagonista del seminario sulla libertà di stampa e lotta alle mafie. All’iniziativa, introdotta e coordinata dal docente Giancarlo Costabile, è intervenuto il rettore uscente dell’Unical, Gino Mirocle Crisci, al quale è stata consegnata una targa ricordo per aver sempre sostenuto politicamente le iniziative del laboratorio di Pedagogia dell’Antimafia nato il 23 maggio 2011 e giunto al suo nono anno di attività.

Il trauma infantile di Michele Albanese

Michele Albanese, giornalista calabrese d’inchiesta e responsabile legalità della Federazione nazionale stampa italiana, vive sotto scorta da quasi quattro anni. Sotto scorta perchè la ‘ndrangheta avrebbe avuto un piano per ucciderlo. Sulle indagini c’è un lavoro intenso, ma assolutamente coperto dal segreto. Ma Michele preferisce non «cadere nel vittimismo della sua vicenda, non sono qui a raccontare come si vive sotto scorta», come lui stesso dichiara. Vive nella Piana di Gioia Tauro. È da lì che nasce l’amore per quel mestiere, il giornalismo e nello stesso tempo la rabbia che lo ha spinto a scrivere contro il «vero responsabile che ha distrutto la nostra terra: la ‘ndrangheta».

 

«La mia rabbia è nata quando all’età di 7 anni, stavo giocando la casa di mia nonna quando vidi uscire da un bar di Goia Tauro quattro persone, una delle quali dopo un’animata discussione tirò fuori la pistola e uccise a bruciapelo a distanza ravvicinata un altro uomo». A distanza di tanti anni il giornalista conserva ancora un ricordo vivido di quella tragedia, impressa come un marchio indelebile quando era bambino. «Ricordo ancora i fotogrammi di quel tardo pomeriggio in una via del mio paese. Ricordo persino i vestiti dei protagonisti di quella sparatoria, il fuoco che uscì dalla canna della pistola, come venne colpita la vittima, il suo cadere stramazzare per terra. Ricordo il rantolo della morte, l’ultimo respiro». Una vicenda che lo ha scioccato e che «mi ha posto di fronte a due possibilità: o essere succube della paura, del terrore o cercare di reagire. Ho scelto la seconda strada tra mille paure e mille incertezze, attacchi e momenti di panico. Però questo mestiere l’ho fatto come me l’hanno insegnato i miei genitori, cercando di non tradire la mia terra – puntualizza Albanese in modo concitato – nella quale ho continuato a vivere anche dopo una serie di vicende che mi sono accadute». E aggiunge: «Quando ho inziato a fare questo lavoro mi sono inimicato tante persone. Questo mestiere si fa o rimanendo servi del sistema o cercando di restare uomini e giornalisti liberi. Chi sceglie di farlo con credibilità e rispetto viene messo sotto tiro da contesti come la criminalità, fatto di minacce, da condizionamenti da parte della politica perché non ci si è voluti piegare la schiena e da condizionamenti economici».

 «Se si fugge, qui rimarrà solo corruzione»

Una terra bella quanto dannata, la Calabria, in cui Albanese esorta i ragazzi ad uscire da un torpore e da un vittimismo che «ci fa cadere nella rassegnazione da quando siamo nati». Fuga, emigrazione, abbandono, le parole ricorrenti contro il quale il popolo calabrese si scaglia spesso e volentieri in una sorta di litania vittimistica nella quale un «Dio ci avrebbe destinato a sopperire». «Ma non è così», rimarca Albanese.

 

E di fronte ad un’aula gremita di giovani menti prova a fare un test: «Quanti di voi vogliono rimanere in Calabria dopo gli studi? - domanda - Quanti invece se ne vogliono andare da qui?». Un verdetto inesorabile che Albanese si appresta ad accogliere con amarezza, ormai abituato, dopo la conta numerosa di chi vorrebbe fuggire dalla Calabria. «Amate la vostra terra?» continua. Gli studenti rispondono all’unisono con approvazione. «Non vi sembra un controsenso amare questa terra e desiderare di scappare? Come si può amare questa terra e non sognare di migliorare le condizioni di vita e di sviluppo economico, sociale e culturale di una regione così stupenda come la nostra?». «Se qui si sogna di scappare – incalza - lo sapete cosa rimarrà in questa terra? Coloro che non utilizzano le regole democratiche, il rispetto delle libertà individuali e collettive. Qui resteranno solo corrotti, ‘ndranghetisti, classe dirigente collusa, poteri strani, lobby che uccideranno ancora di più questa terra».

 

«Il mio obiettivo – prosegue – è cercare di convincere qualcuno di voi, spero tutti o almeno una parte, a rivedere l’ipotesi di andare via da qui per continuare a combattere e resistere». Albanese, 57 anni, parla con la tenacia e il fervore di chi è deciso a voler gettare un seme nella speranza di poterne raccogliere i frutti. Dall’inizio alla fine la parola chiave su cui si aggrappa il suo discorso è «guerra, non quella fatta di violenza fisica. È una guerra culturale affinché si possa continuare a vivere e lavorare con serenità. Dovete organizzarvi, studiare, impegnarvi e combattere una cultura mafiosa che è diventata ormai sistema».

 

E in un mea culpa ammantato da un plurale maiestatis, Michele Albanese rimprovera «la mia generazione, i primi a tradire il vostro presente e il vostro futuro. Quando vi dicono: "Ragazzi il vostro futuro dovete costruirvelo" stanno dichiarando la più grande vigliaccata. Il vostro futuro lo dobbiamo costruire noi e non voi. Noi generazione più grande di voi, noi genitori, noi che abbiamo avuto un ruolo nel mondo delle professioni e dell’informazione».

 

La sua è una preghiera, quasi una supplica, rivolta agli studenti, nelle vesti di padre e di mentore, quando esorta a non abbandonare la Calabria, «che significa luogo dove nasce il bene, dall’etimologia della parola. Ma in realtà è l’ultima regione del regno con gente nata rassegnata». La Calabria è l’unica regione che ha «questa straordinaria presenza di arti e di mestieri, del bello. E invece si sogna solo di andar via, e sono ferite che scavano il cuore delle persone oneste di questa terra».

La mafia e la massoneria

Michele Albanese fa un excursus sull’evoluzione della ‘ndrangheta e i suoi rapporti con il territorio, quei legami a vari livelli divenuti tentacoli che si sono estesi a livello globale.

«Vengo da una provincia, quella di Reggio Calabria, nella quale le più grandi famiglie di ‘ndrangheta sono diventate oggi una holding nazionale, economica e criminale. Era tutta gente che veniva dall’agropastorizia e che guardava le vacche, le pecore e le capre. Oggi sono diventati una categoria così sofisticata in grado di controllare fette di territorio, la politica, pezzi di istituzioni, l’economia, non solo in Calabria ma nel mondo». La mafia è cambiata da quando negli anni ’70 è entrata a stretto contatto con la massoneria, ripulendosi dalla figura popolana che la vedeva lavorare nei campi. «Da quando la mafia ha stretto un legame con la massoneria è riuscita ad entrare nel mondo delle imprese, delle banche e della politica divenendo un mostro invisibile».

 

«Chi ha aiutato questa gente a diventare quella che è diventata oggi?», si chiede Albanese. «Quelle persone che hanno tradito questa terra, coloro che si sono organizzati in gruppi di potere strumentalizzando la supremazia per un loro esclusivo vantaggio personale a discapito della maggioranza della popolazione». «Se qui non c’è stata una crescita normale è dovuto a questo strano potere che impedisce, che ha un controllo del territorio terribile ».

 

«Una terra fatta di servilismo e per cui nessuno vuole combattere - prosegue amareggiato il giornalista - nella quale nessuno vuole fare resistenza. Nessuno sceglie di entrare in guerra contro chi sta avvelenando la nostra terra. Così Michele Albanese conclude la sua lectio in un ultimo disperato tentativo di convincimento rivolgendosi agli studenti in aula: «Io vi supplico, mi inginocchio. Perdonateci per come tutti noi abbiamo danneggiato questa terra. Ma voi prometettemi di non scappare dalla Calabria».