In Italia sono quasi le sette e mezza di sera, da Los Angeles Giosuè Greco risponde alla chiamata col sole pieno delle dieci californiane che illumina la sua stanza-studio. Sullo sfondo strumenti, chitarre, mixer. «Ormai sono qui da quindici anni, è la mia casa». Una familiarità acquisita che si riflette non sull’accento, ma sulla complessità di alcuni termini che invece velocemente pronuncia in inglese.

La notte degli Oscar è vicina, e lui sarà parte del grande gioco del cinema che culminerà tra il 10 e l’11 marzo, quando dal Dolby Theatre della città degli Angeli, gli occhi del mondo saranno su quella platea in cui siederà anche l’italiano Matteo Garrone in lizza nella categoria di Miglior film Internazionale. Giosuè Greco, musicista e compositore, ha contribuito con la sua colonna sonora al successo di Nai Nai & Wai Pò, diretto da Sean Wang, candidato all’Oscar nella categoria “miglior cortometraggio”: uno spaccato sulla vita delle due nonne del regista girato durante il lockdown. Se brillerà la statuetta iridata nelle mani dell’autore d’origine taiwanese, sarà il secondo successo anche per Greco che ha scritto le musiche per “Didì”, sempre di Wang, che ha vinto il Sundance.

Greco, il suo sembra il classico sogno americano di chi parte da lontano e trova il successo.
«Sono arrivato qui che avevo solo 21 anni, sembra una vita fa, forse lo è, adesso ne ho 34. Quando lasciai l’Italia potevo scegliere se andare a New York o venire qui in California. Provai per un po’ nella Grande Mela, ma non mi piacque stare lì e allora ho detto: andiamo in California dove c’è il grande cinema, le grandi possibilità».

Tutto però è cominciato da Polistena, la sua città di origine.
«Mio nonno era un sassofonista e io a otto anni già cominciavo a familiarizzare con il suo strumento. Ho fatto i primi studi all’Accademia Nosside di Polistena, che seguivo dopo la scuola. Poi è arrivato il Conservatorio di Vibo Valentia, che ho frequentato da esterno, e lì ho conosciuto il grande maestro Piero Cusato al corso di musica jazz. Era una persona straordinaria, la mente più brillante che io abbia mai conosciuto, un grandissimo artista. Suonava mille strumenti, insegnava, per me è stato un mentore. Purtroppo ci ha lasciati, ma i suoi insegnamenti li porto ancora nel cuore. Non lo dimenticherò mai».

Visto che abbiamo riavvolto il nastro, le chiedo com’è arrivato negli States: coincidenze fortunate, un obiettivo preciso, il caso?
«Una borsa di studio. Ero studente di un corso organizzato da Umbria Jazz. Io ero lì, con il mio sassofono e avevo davanti a me i docenti del più importante college di musica del mondo, quello di Berklee di Boston e quando finirono i corsi mi fu offerta una borsa di studio per volare negli Stati Uniti».

E non è più tornato.
«Dovevo fare un semestre lì e poi rientrare in Italia, ma è finita che mi hanno proposto la borsa di studio completa di quattro anni, e ho accettato subito. Sono entrato nella scuola come sassofonista ma poi, da smanettone quale sono, ho scelto la specialistica in ingegneria del suono perché mi apriva un mondo pieno di possibilità».

Com’è stato studiare in un tempio della musica come quello di Berklee?
«Avevo a disposizione dei laboratori straordinari, con attrezzature incredibili come la consolle dove hanno registrato “Purple Rain” o il microfono di Prince. Di giorno andavo alle lezioni e di notte registravo negli studi. È stata un’esperienza importantissima per me che mi ha messo in contatto con altri studenti che oggi sono diventati musicisti di grande caratura».

L’impatto con Los Angeles è stato traumatico?
«Non direi. Una volta arrivato qui ho subito trovato lavoro come specialista di attrezzature musicali e intanto mi guardavo intorno e iniziai a mettermi in contatto con filmmaker e sceneggiatori. I primi due anni sono stati un po’ caotici e molto impegnativi».

Quando è arrivato il debutto in tv?
«Un giorno un compositore per cui lavoravo mi fa: “Senti, ma tu scrivi anche musica? Mi aiuteresti a comporre la colonna sonora per la serie The Good Doctor?” E così ho cominciato. Quello è stato il mio primo credit nel mondo della tv. Poi è arrivata la serie “Welcome to Wrexham” su Disney+ con Ryan Reynolds, di cui ho scritto le musiche per tutte e tre le stagioni. L’ultimo lavoro è “After Antartica”, un documentario che dovrebbe andare in onda su National Geographic” prossimamente».

Adesso c’è "Nai Nai & Wài Pò" di Wang che è in corsa per l’Oscar, ma non è un'esperienza nuova per lei.
«È la seconda in realtà. Un giorno, un po’ di tempo fa, dei filmmaker molto giovani mi chiesero se volessi scrivere la colonna sonora per una cosa che stavano girando per Netflix. Il corto si chiamava “Period of sentence” che ha vinto al Sundance e anche l’Oscar».

Ha una mano fortunata, non c'è che dire. Com’è nata la collaborazione con il regista Sean Wang?
«Sean e io avevamo già collaborato per il suo primo corto che si chiamava “Have a great summer” che andò benissimo, uscito tre anni fa. L’anno dopo mi contattò mandandomi questo corto e raccontandomi com’era nata l’idea. L’ho trovato subito grandioso, è un’opera totalmente originale, non ne esistono così. Io ho scritto quella sera stessa qualcosa per lui, ho registrato un memo dal telefono con pianoforte e un fischio che poi è diventato il tema musicale principale del film. Lo stile del film è molto influenzato dal sound pop cinese degli anni Sessanta che è contaminato da quello americano e inglese. Io volevo rifarmi un po' alla loro musica tradizionale, ma senza usare i loro strumenti classici per non cadere in facili cliché».

Sia "Nai Nai & Wài Pò" che "Didì", raccontano storie di emigrazione, un tema che la riguarda da vicino: in fondo ha lasciato la sua terra, la sua nazione, e ha avuto successo altrove.
«Quando cresci in America ma non sei americano, finisci per non sentirti abbastanza cinese o italiano, ma nemmeno abbastanza americano. Il problema è che nonostante la formazione e l'istruzione molti restano ancorati alle loro radici così tanto, da non riuscire a sentirsi del tutto parte di un altro Paese».

Torna a Polistena di tanto in tanto?
«Due volte all’anno e ogni volta trovo un’accoglienza incredibile».

Ha un maestro di riferimento?
«Nino Rota, che trovo davvero affascinante e poi naturalmente Ennio Morricone perché le cose che faceva lui non erano convenzionali, ha sempre osato usando rumori e fischi quando in quegli anni se ti discostavi dal classico eri un eretico. Ma i grandi non sono quelli che restano nella loro comfort zone, sono quelli che i cancelli li rompono e ci suonano sopra magari».