La guerra di ‘ndrangheta scongiurata grazie alla collaborazione eccellente di Bartolomeo Arena è l’incipit della ripresa della requisitoria al maxiprocesso Rinascita Scott da parte del pm antimafia Antonio De Bernardo. Arena, figura di rilievo dei Macrì-Pardea-Ranisi, per sua stessa ammissione «salva la vita a Rosario Pugliese “Cassarola”» – spiega il magistrato – e così esorcizza il rischio che Vibo Valentia sprofondasse in una nuova faida. Il progetto omicidiario – rammenta il pm – fu ordito in particolare da Francesco Antonio Pardea, che intendeva così vendicare la morte dello zio, patriarca del suo clan, avvenuta negli anni ’80. Un delitto eccellente, consumato dopo la scomparsa per lupara bianca di un adolescente della famiglia Pugliese, che decretò il tramonto dei Pardea detti “Ranisi”, tornati in auge solo col nuovo millennio.

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Il pubblico ministero descrive l’assetto del cartello mafioso raccontato su Arena, la cui ascesa su Vibo Valentia è di fatto successiva alle vicende che portarono alla collaborazione con la giustizia di Andrea Mantella. Al vertice dei Macrì-Pardea-Ranisi, l’anziano Domenico Camillò che, dopo un «poco convinto» e infruttuoso avvio di collaborazione con la giustizia, è stato processato e condannato in primo grado nel troncone del maxiprocesso Rinascita Scott celebratosi con rito abbreviato. Altra figura di spicco è Antonio Macrì, sul quale poco o nulla racconta Mantella, ma del quale dice molto non solo Arena, ma anche Michele Camillò, figlio di Domenico Camillò, la cui collaborazione con la giustizia è invece andata a buon fine, e Gaetano Cannatà.

Ricorda, il pm De Bernardo, come proprio Michele Camillò tratteggi lo spessore di Antonio Macrì, «che – confermò nel dibattimento – aveva una carica elevata, anche se inferiore a quella di mio padre». Secondo i collaboratori, peraltro, proprio Macrì sarebbe stato il collante con lo storico cartello egemone su Vibo Valentia, quello dei Lo Bianco-Barba, il cui potere subì pesanti contraccolpi prima con la ribellione di Andrea Mantella, poi con la morte del patriarca Carmelo Lo Bianco e, infine, con l’ascesa degli stessi Macrì-Pardea-Ranisi, poi usciti dal «buon ordine» e ritrovatisi in un «corpo rivale». I Macrì-Pardea-Ranisi, ad un certo punto, si sarebbe suddiviso in tre sottogruppi, uno capeggiato da Salvatore Morelli, considerato l’erede naturale di Andrea Mantella, un altro da Domenico Macrì detto Mommo (già giudicato e condannato in primo grado nel processo in abbreviato), infine il terzo guidato da Francesco Antonio Pardea unitamente a Bartolomeo Arena.

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Il titolare dell’accusa richiama anche il profilo dell’imputato Raffaele Pardea, padre di Francesco Antonio Pardea, sul quale «abbiamo raggiunto livelli di prova non inferiore a quelli di altri soggetti della ‘ndrina Pardea-Ranisi. È una posizione che – spiega il pm – si è formata nel corso dell’evoluzione del processo, partendo proprio dalle dichiarazioni di Arena, che giungono però solo alla fine del percorso cautelare. A carico della sua partecipazione all’associazione mafiosa gli elementi col tempo sono cresciuti a dismisura. Non solo Arena, ma anche altri collaboratori hanno parlato diffusamente di Raffaele Pardea. Lo ha fatto anche Guastalegname in relazione ad un traffico di armi, ma più consistenti quelli offerti da Gaetano Cannatà». Consuma una sparatoria, partecipa ai riti, «è figura pienamente inserita anche nelle dinamiche del buon ordine, anche dopo la fuoriuscita di Domenico Camillò». Dotato della «Santa», appartenente alla «società maggiore», è coinvolto «anche in vicende pur bagatellari ma sempre indicative del controllo del territorio», spiega il pm. E poi «è uno dei portatori di odio verso i “Cassarola”, perché desideroso di vendicare la morte del fratello».

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Successiva posizione, quella di Giuseppe Camillò, figlio maggiore del presunto patriarca Domenico, accusato di associazione mafiosa e armi. Lo accusano, oltre che Andrea Mantella, Bartolomeo Arena e Gaetano Cannatà, anche il fratello Michele. Dotato del «trequartino», coinvolto in vicende estorsive, di armi e attentati, è – ribadisce nelle sue conclusioni il pm – soggetto pienamente partecipe alle dinamiche ‘ndranghetiste della famiglia di appartenenza. A ruota, il pm vaglia le emergenze sugli altri imputati, da Domenico Camillò, figlio di Giuseppe e nipote dell’omonimo patriarca, e a Luigi Federici, che rispondono di una lunghissima serie di reati che passano dall’appartenenza al sodalizio mafioso a tentativi di omicidio, spaccio, armi, estorsioni, danneggiamenti, risse…. Nei loro confronti, evidenzia il titolare dell’accusa, non solo le dichiarazioni dei pentiti, ma anche le attività tecniche di intercettazioni che dimostrano la pericolosità sociale delle giovani leve di Vibo Valentia. Soprattutto Domenico Camillò sarebbe stato considerato inizialmente come una sorta di erede del nonno, ma le sue intemperanze lo avrebbero reso invece un «soggetto assolutamente ingestibile» che, in ragione delle sue intemperanze, creò «un sacco di problemi all’organizzazione», che decretò una «sospensione di sei mesi». I due sarebbero stati legati anche da una forte amicizia e ad una parte dei reati loro contestati avrebbe contribuito come concorrente anche l’imputato Giuseppe Suriano, «terzo componente di un gruppetto – dice il pm – del quale il giovane Domenico Camillò era una sorta di caporale, anche se spesso indisciplinato».

«Erano espressione di un gruppo che seminava il panico, soprattutto attraverso le risse, che erano sì mal tollerate dai più anziani, ma che rientravano in logiche del controllo del territorio. Erano le risse a destare grave allarme sociale – conclude il magistrato del pool di Gratteri – perché alimentavano quel senso di impunità percepito dalla cittadinanza e della quale ritenevano di godere i loro protagonisti. Quando scattò l’operazione, tutto cessò e la città tirò un sospiro di sollievo, come dimostrano le manifestazioni spontanee dei cittadini».