Tegano jr finisce ai domiciliari. Nel maggio di un anno fa aggredì un giovane perché gli disse di andare piano con l'auto. E dalle carte emerge il suo ruolo nel nuovo scacchiere della cosca. Dalla movida ai social network: la nuova avanzata dei 'teganini' da fermare al più presto
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«Non sai chi sono io? Sono Giovanni Tegano». Si è rivolto così, con la sfrontatezza dei vent’anni e la consapevolezza di appartenenza ad una famiglia notoriamente sanguinaria, per un banale diverbio vicino ai locali della movida. Quegli stessi posti dove fino al recente passato pensava di poter continuare a dettare legge indisturbato. Fino a quando la forza dello Stato ha prevalso, proprio come in questo caso. Oggi, infatti, gli uomini della Squadra mobile di Reggio Calabria, diretti da Francesco Rattà hanno eseguito un’ordinanza di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari, nei confronti di Giovanni Tegano, 22 anni, nipote dell’omonimo boss Giovanni per anni vertice indiscusso del casato ‘ndranghetistico di Archi, con l’accusa di violenza privata aggravata dalle modalità mafiose, commessa ai danni di un giovane reggino.
La ricostruzione dei fatti
I fatti risalgono al 28 maggio del 2017, quando dinanzi di un noto bar della movida reggina, Tegano arriva a forte velocità a bordo di un’auto, andando ad impattare con il marciapiede posto vicino al luogo in cui era seduto un giovane con degli amici. Avvertito l’impatto della ruota con il marciapiede, l’uomo fa cenno al conducente di andare piano. Immediata la reazione: il guidatore scende dell’auto assieme ad altri quattro giovani e si rivolge al malcapitato: «Non sai chi sono io? Sono Giovanni Tegano». Non pago del tono minaccioso, continua ad inveire ed utilizzare la chiave dell’autovettura spingendola contro il collo della vittima, provocandogli lesioni personali. Finita qui? Neanche per idea: il giovane viene costretto a non allontanarsi dal posto, così da poter avere un successivo confronto con Tegano che, nel frattempo, entra al bar. Alla vittima non è consentito neppure usare il telefono cellulare. Una violenza in piena regola, quella ricostruita dalla Polizia. Successivamente, la vicenda rischia di degenerare ulteriormente in atti di violenza, quando Tegano, avvisato da alcuni suoi amici che il giovane vuole contattare le forze dell’ordine, esce dal bar e cerca di colpirlo con schiaffi e pugni, senza per fortuna riuscirci. Il giovane, però, cade a terra per ripararsi dai colpi della nuova leva delle ‘ndrine di Archi. Solo la presenza di molta gente consiglia al gruppetto di allontanarsi dal luogo.
Le indagini della Dda
Immediatamente vengono avviate le indagini della Dda, coordinate dal sostituto procuratore Walter Ignazitto, con gli uomini della Mobile che ascoltano testimoni e analizzano riprese video, raccogliendo ogni elemento utile a ricostruire la vicenda.
L’aggravante mafiosa
Anche per quanto concerne l’articolo 7, contestato a Tegano, esso è da farsi risalire all’utilizzo evocativo del suo cognome, ostentazione di un potere e di una forza intimidatoria della ‘ndrangheta.
L’avanzata dei "Teganini"
Le indagini della Squadra mobile, dunque, confermano ancora una volta quanto pericolose siano queste nuove leve di Archi, già ribattezzati “teganini” proprio in virtù della loro discendenza della sanguinaria famiglia mafiosa capeggiata da Giovanni Tegano, il superlatitante catturato sempre dalla Polizia nel 2010 e indicato come “uomo di pace”. Ma di pacifico i Tegano hanno ben poco, ancor più ora che i vecchi capi sono in cella e loro sono assetati di potere. Nel recente passano i giovani sono stati implicati nell’inchiesta “Eracle” che ha fatto luce sull’influenza delle ‘ndrine nella gestione dell’attività di buttafuori all’interno della movida reggina, settore anche questo di storico interesse per la ‘ndrangheta di Reggio Calabria. Su tutti spiccano proprio Giovanni Tegano, oggi ai domiciliari, e suo cugino Domenico, di pochi anni più grande e ritenuto personaggio dallo spiccato carisma criminale. Entrambi risultano indagati per rissa e lesioni ai danni di due poliziotti intervenuti per sedare una rissa scoppiata con alcuni giovani, alcuni dei quali ritenuti vicini ai clan della Piana di Gioia Tauro.
Movida territorio di conquista
E sono proprio loro a terrorizzare la movida di Reggio Calabria da qualche anno. Si ritengono i padroni incontrastati. Un’informativa di polizia, inserita nell’inchiesta “Eracle” parla chiaramente di un “gruppo malavitoso di 40 persone, tutti facenti parte della zona di Archi, i quali durante le serate organizzate del sabato sera entravano con violenza e forza aggredendo il personale ed in alcuni casi ferendolo gravemente, distruggendo quanto trovavano davanti ed asportando le casse coi relativi incassi".
Social, un punto debole
Tuttavia, proprio la loro protervia ha rappresentato un limite perché unita alla passione per i social network: sono state le foto postate sui profili dei singoli appartenenti al gruppo a determinare una pronta identificazione da parte delle forze di polizia. Serate a base di champagne costoso e selfie di rito. Una pratica che ha permesso alla Squadra mobile di appuntare immediatamente l’occhio dello Stato su queste nuove leve.
Giovani da fermare subito
E l’episodio ricostruito nella giornata odierna rappresenta una ulteriore conferma di come sia assolutamente indispensabile procedere con azioni ferme, risolute e quanto mai veloci per chiarire senza infingimenti che l’epoca dello scorrazzamento libero per la città è terminato quasi prima d’iniziare. Che non esistono più tempi in cui qualcuno può credersi immune sol perché registrato all’anagrafe con un cognome di mafia. È una spirale che deve essere interrotta in tempi brevissimi, proprio come sta facendo la Procura della Repubblica guidata da Giovanni Bombardieri e le forze di polizia tutte. Reggio Calabria deve ripulirsi da tutto ciò e farlo una volta per tutte. Perché quel “non sai chi sono io?” nasconde molto più che una semplice minaccia. Nasconde una mentalità, un humus di subcultura dove alberga il germe della violenza, della sopraffazione ed anche della paura dei cittadini di reagire ai soprusi.
Consolato Minniti