Il giovane è rimasto vittima di un agguato la sera del 17 febbraio scorso e si è spento dieci giorni dopo nell'ospedale a Cosenza. Il coraggio della donna che ha tentato di tirarlo fuori dal tunnel della tossicodipendenza: «Nessuno aiuta questi ragazzi, sono abbandonati dallo Stato»
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«Voglio mio figlio, voglio dargli una sepoltura dignitosa e la pace che finora non ha avuto». Erminia Limongi è disperata. Il suo unico figlio, Francesco Prisco, è morto lo scorso 27 febbraio all'ospedale Annunziata di Cosenza, dopo dieci giorni di agonia, e da quel giorno attende ancora che la magistratura disponga l'autopsia sulla salma e le restituisca ai famigliari per i funerali. «Non ho potuto nemmeno salutarlo o dargli un ultimo bacio - ci dice -. Aiutatemi, nessuno mi fa sapere niente, io non ce la faccio più, non so più a chi rivolgermi». È dolore che si aggiunge altro dolore. Il giovane, che avrebbe compiuto 31 anni il prossimo 25 marzo, viveva a Tortora con la madre e la sera del 17 febbraio è stato colpito da una raffica di colpi di fucile caricato a pallettoni, proprio sotto la sua abitazione. In un primo momento, le sue condizioni non avevano destato grosse preoccupazioni, ma a poche ore dall'agguato, ancora avvolto nel mistero, il quadro clinico è peggiorato fino al tragico epilogo. Ora la sua mamma chiede solo di poter celebrare i funerali e portare un fiore sulla sua tomba, ma a distanza di quasi due settimane non si conosce nemmeno la data dell'esame autoptico.
L'agguato sotto casa
La procura di Paola ha aperto un fascicolo di indagine sulla vicenda, che contesta ad ignoti l'accusa di omicidio. Per gli inquirenti sarà cruciale ricostruire gli ultimi minuti di vita del 30enne. «Quella notte mio figlio era tornato a casa e aveva fame - racconta la madre -, aveva tagliato la pancetta e messo a bollire l'acqua per la pasta». Poi lei gli dà la buonanotte e va a dormire. Quello che succede dopo è un nodo ancora da sciogliere. Di certo c'è che Francesco ha già buttato gli spaghetti in pentola, quando riceve una chiamata. Corre giù, in strada, senza spegnere il gas. Pochi istanti dopo è già riverso sul marciapiede, sanguinante, con il corpo crivellato, ma lucido e cosciente. Sono le sue urla ad allarmare il vicinato, ma non sua madre, che non si accorge di nulla. Sul posto arrivano due ambulanze, i sanitari caricano il paziente in barella e lo trasportano nel nosocomio bruzio, mentre gli spaghetti cominciano a bruciare e la sua casa si riempie di fumo. Erminia viene svegliata dai carabinieri intorno alle sei del mattino. «Non si preoccupi - le dicono i militari - suo figlio non è in pericolo di vita». Francesco, infatti, nel tragitto verso l'ospedale parla, è vigile, sembra essere riuscito a schivare i colpi mortali. Ma alle 10 di quello stesso giorno i medici dell'Annunziata sono costretti a sedarlo perché i dolori sono sempre più lancinanti. Quando arriva la madre, Francesco è già in coma indotto. Non si riprenderà più. Il suo cuore cesserà di battere dieci giorno dopo.
Una madre coraggio
Erminia non si rassegna. Per quel figlio ha dato l'anima, ma non è servito. «Mio figlio era caduto nel tunnel della tossicodipendenza - ci dice - e non c'è niente da nascondere. Mio figlio è una vittima». Anzi, lo aveva detto a tutti, amici e conoscenti: «Speravo che qualcuno lo aiutasse». Lei ci ha provato in tutti i modi. In piena pandemia l'ha convinto a disintossicarsi ed entrare in comunità, ma ci è rimasto soltanto un paio di mesi. Tornato a Tortora, è rientrato nel giro della droga. «Allora l'ho denunciato, per il suo bene. Il cuore mi si è spezzato, ma speravo che lo arrestassero e lo portassero via da qui». Invece non succede nulla, se non che madre e figlio sono costretti a vivere separati. Ma un giorno il giovane citofona a casa: «Mamma - le dice, quando la vede sulla soglia della porta - lo sai che io non riesco a mangiare a casa di un altro». Erminia va a ritirare la denuncia. Francesco finalmente torna a casa, ma la tossicodipendenza non gli dà tregua. E nemmeno certi suoi "amici". Un anno e mezzo fa la sua auto va in fiamme nel cuore della notte, un mese prima dell'agguato qualcuno spara alla porta di casa. Erminia trema: «Chi è che ti vuole male? Ti prego, stai attento». Francesco si chiude a riccio. Forse lo sa che sta rischiando la vita, ma da certi giri non puoi uscirne, nemmeno se hai paura. Nemmeno se hai 30 anni e capisci che devi ricominciare tutto da capo. La notte del 17 febbraio, torna a casa dopo una serata con gli amici e sembra tranquillo. Ha fame. Vuole solo mangiare il suo piatto di pasta preferito e sprofondare nel suo letto. Invece sprofonda in una trappola mortale. «La situazione è drammatica - spiega sua madre -, qui ci sono un sacco di ragazzi nella sua situazione e nessuno li aiuta. Sono completamente ignorati dallo Stato e dalle istituzioni. Io voglio che tutti conoscano la storia di mio figlio perché spero di salvare altri giovani. Nessuna madre dovrebbe soffrire il mio stesso dolore». Il dolore di una madre che perde un figlio morto sparato e non ha ancora nemmeno un corpo su cui piangere.