Si allungano ombre sempre più sinistre dietro la fuga di Nino Lo Giudice dalla località protetta di Macerata, nel giugno del 2013, con conseguente ritrattazione delle accuse fatte e attacchi diretti a esponenti delle istituzioni. È quanto emerge dalla nuova udienza del processo “’Ndrangheta stragista”, tenutasi oggi nell’aula della Corte d’Assise di Reggio Calabria.

 

Sul banco dei testimoni un ufficiale di pg che ha firmato tantissimi atti di delega della Dda reggina coordinata da Giuseppe Lombardo. Il sostituto commissario Crucitti, infatti, ha portato con sé una mole notevole di faldoni, segno di un lavoro enorme compiuto sull’inchiesta che ha condotto all’arresto dei presunti mandanti dell’omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo e al tentato omicidio di altri appartenenti all’Arma. Atti che, come sappiamo, s’inquadrano in quella strategia stragista che Cosa nostra aveva messo in atto assieme alla ‘ndrangheta per destabilizzare il Paese ed ottenere benefici grazie all’intercessione di una specifica classe politica. Quella stessa Cosa nostra che, ironia della sorte, proprio nella notte ha perso il suo storico vertice, Totò Riina, morto per cause naturali.

 

I contatti fra Lo Giudice e esponenti dell’Arma

Crucitti entra subito nel vivo della sua deposizione, raccontando quelli che furono gli approfondimenti investigativi riguardanti i contatti fra il pentiti Nino Lo Giudice ed alcuni esponenti dell’Arma dei carabinieri nel periodo che precede la sua scomparsa, avvenuta il 4 giugno 2013. Il poliziotto spiega come il 29 maggio dello stesso anno, emersero contatti telefonici fra il collaboratore di giustizia e un numero di telefono intestato ad una società immobiliare di Macerata. Dai successivi accertamenti venne fuori come quel numero, in realtà, era nella disponibilità di un carabiniere appartenente al nucleo di protezione. «Quello che ci sembrò strano – afferma Crucitti – è che Lo Giudice chiamasse dal suo numero, un’utenza che non era quella ufficiale del militare, ma un’altra». Perché questo genere di contatto? C’era qualcosa che i due si dovevano dire e che non doveva risultare?

 

La visita segreta dei familiari del boss

Crucitti prosegue nel suo racconto, narrando di un altro episodio molto significativo, risalente al 14 maggio 2013. Alle 22.58, in via Bramante, a Macerata, furono fermati la moglie di Lo Giudice, Caterina Stilo e suo figlio Giuseppe. Anche qui emerse un’anomalia. Sebbene il controllo risulti alle 22.58, i contatti fra moglie e figlio di Lo Giudice ed il pentito finirono alle 0.015 del giorno dopo. «È presumibile – spiega Crucitti alla Corte – che i due non conoscessero le strade e siano stati accompagnati dai militari nel luogo ove si trovava Lo Giudice». Quella discrasia fra l’inserimento nel data base e la relazione fa presumere una simile circostanza. Ma perché i carabinieri avrebbero dovuto accompagnare Stilo e Lo Giudice?

 

La paura dei carabinieri

Dalle conversazioni venne fuori come Nino Lo Giudice avesse una tremenda paura delle forze dell’ordine in quel periodo. Dei carabinieri in particolare. Tanto da dire al figlio a più riprese di controllare, qualora qualcuno avesse suonato alla porta e si fosse presentato come esponente dell’Arma. Una paura ingiustificata, ma allo stesso tempo angosciante per un uomo sotto servizio di protezione. A meno che qualcuno non volesse fargli del male.

La donna polacca e la sim che porta al comando generale

Sono sempre le conversazioni del “nano” a fornire un quadro a tinte fosche, dipinto da Crucitti. Questi, infatti, riporta quanto avvenne durante l’assenza della compagna di Lo Giudice, partita per il Marocco sua terra d’origine. Il pentito, mentre faceva una passeggiata con la cagnolina, fu avvicinato da tre uomini e prelevato. Portato via. Crucitti non può riferirlo durante il processo perché la procedura vuole che sia Lo Giudice a farlo, ma le carte diranno in maniera chiara che quegli uomini gli chiesero conto delle sue dichiarazioni riguardanti Giovanni Aiello “faccia di mostro”, un nome ed un volto che avrebbe invece dovuto dimenticare. Fu proprio durante questa assenza e lontananza dalla sua compagna, che Lo Giudice affermò di aver conosciuto una donna ucraina di nome Lea, con la quale avrebbe poi iniziato una relazione. Ma chi era questa donna? Il mistero s’infittisce quando, dopo la sua fuga del 4 giugno, vengono registrati due contatti telefonici fra il numero intestato a Lo Giudice, ma utilizzato in quel periodo dalla sua amante marocchina, e quello della misteriosa donna ucraina.

 

Ecco allora che gli approfondimenti sul numero di questa “Lea”, identificata dai poliziotti, porta a scoprire dei contatti con un numero intestato al comando generale dell’Arma. La donna ucraina, dunque, era in contatto con un carabiniere. Perché? Si trattava di una mossa per mettere al sicuro qualcuno? Il dubbio degli investigatori è lecito: forse quell’utenza serviva per provare a rintracciare Lo Giudice durante la sua assenza?

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Donadio, l’esposto anonimo e l’ombra dei servizi

La situazione si complica ancora di più. Dapprima per il nastro registrato da Lo Giudice e concernenti l’ormai nota vicenda riguardante l’ex procuratore aggiunto della Dna, Gianfranco Donadio e i documenti che Lo Giudice avrebbe dovuto inviare. In quel nastro vi sono nomi e riferimenti a esponenti delle forze dell’ordine: tre carabinieri e due poliziotti di scorta. Ma questo rileva solo in parte. Ciò che invece non era noto è quell’esposto anonimo che qualcuno, nell’ottobre 2011, inviò all’allora procuratore generale Salvatore Di Landro, vittima di un attentato dinamitardo nell’agosto del 2010 e di cui proprio Lo Giudice si è auto accusato come mandante. In quell’esposto si fanno dei nomi riguardanti due esponenti delle istituzioni, ossia i colonnelli Casarsa e Del Vecchio. Sarebbe stato quest’ultimo a prelevare l’esplosivo da una cava di Fiumicino e portarlo direttamente a Reggio Calabria.

Gli accertamenti portano a chiarire come Del Vecchio sia un appartenente all’Arma, ma anche sotto le dipendenze della presidenza del Consiglio dei ministri, quindi presumibilmente dei servizi segreti. Gli approfondimenti circa l’eventuale furto di materiale esplodente dalla cava di Fiumicino, però, non diedero esito positivo.

Per quanto concerne, invece, la figura di Del Vecchio, le ricerche dei poliziotti hanno portato a scoprire come questi fosse stato coinvolto in operazioni internazionali di polizia, come “Somalia Gate”, insieme ad un faccendiere salernitano, Massimo Pizza, anch’egli appartenente ai servizi. Il nome di Del Vecchio ritorna anche per i contatti con il poliziotto Francesco Chiefari, colui il quale piazzò un ordigno all’ospedale di Locri nel 2006. Ma a chi era particolarmente vicino, Del Vecchio? Crucitti lo spiega a chiare lettere: Bruno Contrada, un uomo che ovviamente non ha bisogno di presentazioni, anche perché destinatario, proprio nell’ambito di “’Ndrangheta stragista”, di un decreto di perquisizione. C’è, dunque, un sottile filo rosso che lega i personaggi che hanno fatto la storia recente dei servizi e di alcuni fatti di cronaca, con quanto accaduto a Reggio Calabria negli anni delle stragi prima e degli attentati del 2010 poi. Un filo rosso che passa sì da Nino Lo Giudice, ma che s’incrocia inevitabilmente con l’omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo e quella strategia stragista su cui la Dda continua ad indagare.

Consolato Minniti