In aula la testimone di giustizia parla della sua vita in una famiglia di 'ndrangheta e del matrimonio con Francesco Marando, noto narcotrafficante di Platì che la riduce in schiavitù. Un film dell'orrore che si conclude con la collaborazione e la fuga insieme alla figlia. Ecco gli audio della sua confessione
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Lo zio e i fratelli morti ammazzati, un matrimonio che si tramuta in un film dell'orrore, una vita segnata da violenza e tragedie. Il racconto di Maria Stefanelli è agghiacciante, testimonianza diretta della crudeltà della 'ndrangheta. La sua storia, raccontata in prima persona durante una lunga testimonianza in tribunale, è stata mandata in onda nell’ultima puntata di Mammasantissima – Processo alla ‘ndrangheta, andata in onda martedì 28 febbraio.
Maria Stefanelli inizia parlando della sua famiglia, segnata da lutti e arresti. «Eravamo 9 figli, sette del primo papà Nicodemo Stefanelli morto di infarto, poi mia mamma si è sposata con il fratello di mio papà Antonino Stefanelli, quello che è scomparso. Con lui, il mio patrigno, sono nati altri due figli. Vincenzo Stefanelli è vivo, Antonio Stefanelli sparito, Francesco Stefanelli morto, Rocco Stefanelli morto… è stato trovato ucciso in un carcere. Poi ci sono Marco Stefanelli, Patrizia, Giuseppina, Lina e io».
Una vita difficile, quella della donna nata a Oppido Mamertina e cresciuta in Liguria a Varazze, che peggiora dopo il matrimonio con Francesco Marando, ras del narcotraffico originario di Platì trapiantato in Piemonte.
«Quando mi sposai mio marito era detenuto nel carcere di Torino: in Comune non gli tolsero le manette nemmeno per firmare. Poi, quando ci sposammo in chiesa, la mattina dopo lo dovetti riaccompagnare in carcere». Maria aveva conosciuto Marando durante il periodo di latitanza dell'uomo in Liguria, amico del fratello della donna Vincenzo Stefanelli. Lei vuole solo andare via di casa, lui dopo l’arresto e la condanna a 17 anni di carcere le propone di sposarlo e Maria accetta. In quel momento non sa che quella scelta avrebbe condizionato per sempre la sua vita.
Dopo il matrimonio, Marando le chiede di andare a vivere in un casolare con sua madre a Volpiano. Dopo il trasferimento la sua vita si trasforma in quella di una reclusa: costretta a vivere in un seminterrato, senza luce ed acqua.
Maria viene costretta ad essere complice del marito: prendeva i pizzini e li portava alla matriarca o ai cognati. Costretta ad essere complice della sua evasione. Quando Ciccio Marando, si finse fuori di testa e depresso e si dileguò da una struttura sanitaria. Divenuto uccel di bosco, Marando tornò a Platì e Maria, assieme alla sua bambina, la piccola Mimma, dovette seguirlo. Maria Stefanelli durante il periodo della latitanza del marito è costretta a vivere a Platì: «Meglio morire che abitare in quel posto orrendo» dirà al magistrato. La vita in un paese che non riconosce, le irruzioni continue in casa delle forze dell'ordine che cercano il marito. Maria Stefanelli: «Una macchina veniva a prendere me e mia figlia, stavamo tre giorni con mio marito latitante nascosto in un container interrato sulle montagne».
Più volte picchiata, una volta a sangue, col calcio di una pistola. Lo dice al processo Minotauro. Quando gli comunicarono che suo marito era stato ammazzato, si sentì ovviamente smarrita, in qualche modo anch’ella soffrì, ma fu consapevole che era una sorta di liberazione. Ciccio Marando fu ammazzato nel maggio del 1996 a colpi d’arma da fuoco ed il suo corpo carbonizzato. I fratelli di Marando subito sospettarono che dietro ci fossero i familiari di Maria: lo zio-patrigno di Maria, Antonino, il fratello di Maria, Antonio. Antonino e Antonio Stefanelli, con un loro sodale, spariranno.
E la loro morte resterà impunita. Attorno a Maria, dunque, resta un cimitero, a volte senza tombe né lapidi. Dopo aver subito ella stessa dei sinistri avvertimenti e quando viene ucciso anche Roberto Romeo, che prese parte all’omicidio del marito Ciccio Marando, Maria decide di parlare. È una volta nella sua esistenza. «È stata la scelta migliore che potevo fare, ma ho perso tutto» dirà in aula.. Nella 'ndrangheta, infatti, quando si decide di collaborare con la giustizia non si trova quasi mai supporto: la sua famiglia la ripudiò dopo il suo pentimento. «A me però non interessava più nulla, io lo feci solo per mia figlia. Nel giro di un paio d’ore ero nel programma di protezione. Ho messo quattro cose in una valigia e sono scappata».