«Perché solo adesso?», incalzano gli inquirenti. «Perché durante il periodo dei 180 giorni, ho vissuto dei momenti difficili e non sempre ricordavo le cose, perché non sempre sono stato bene…». I 180 giorni, i primi della collaborazione della giustizia, quelli nei quali il dichiarante è tenuto a riferire tutto ciò che sa, furono tormentati per Emanuele Mancuso. Trentenne, erede ribelle di una dinastia mafiosa che non ha mai avuto pentiti tra i suoi ranghi. Un ragazzo di spiccata intelligenza, abile nell’uso delle nuove tecnologie, ma borderline, talvolta scapestrato, col vizio degli stupefacenti, divenuto papà di una bimba che la famiglia – emerge da una delle indagini condotte dalla Procura antimafia di Catanzaro – avrebbe usato come arma di ricatto per convincerlo a ritrattare le accuse verso il padre boss, Pantaleone l’Ingegnere, il fratello Giuseppe e gli zii, gli altri parenti prossimi, gerarchi e soldati del clan.

L’interrogatorio

È il 16 luglio del 2021 quando, negli uffici del Ros Centrale, davanti al pm Annamaria Frustaci, al capitano Alessandro Bui e al suo legale di fiducia, l’avvocato Antonia Nicolini, rivela proprio tutto ciò che sa sul rapimento, l’uccisione e la distruzione del cadavere di Maria Chindamo, l’imprenditrice di Laureana di Borrello scomparsa il 6 maggio del 2016 da Limbadi. Notizie in parte inedite, che collimano con alcune emergenze investigative e collidono con altre. Resta, però, che almeno fino a questo momento il racconto di Emanuele Mancuso, dall’autorità giudiziaria, è stato sempre ritenuto non solo genuino, ma anche affidabile, credibile e, sovente, riscontrato.

«Il terreno con gli animali…»

Il rampollo del casato ‘ndranghetista di Limbadi e Nicotera Marina fa riferimento a un terreno in cui «Ascone tiene sia i maiali che le pecore». Ascone, Salvatore, detto ‘u Pinnularu, è un trafficante di droga legato a doppio filo con il clan Mancuso, coinvolto in plurime indagini antimafia. È anche il proprietario della tenuta dirimpettaia all’azienda agricola di Maria Chindamo. Anzi, le telecamere di videosorveglianza della tenuta di Ascone sono puntate proprio davanti alla strada e al cancello teatro del rapimento e del probabile omicidio, ma quella mattina erano spente: per questo fatto ‘u Pinnularu, assieme al figlio Rocco e ad un loro inserviente straniero sono stati anche indagati, ma l’inchiesta non ebbe alcuno sbocco processuale. Torniamo, quindi, ad Emanuele Mancuso, che dice: «Andando verso Limbadi, destra c’è la Chindamo, a sinistra c’è la casa di Pinnolaro, poi si prosegue dritto: c’è subito una traversa sulla sinistra, poco dopo c’è il capannone di Pinnolaru dove tiene pecore e maiali…». Proprio qui, questi animali, avrebbero «divorato il corpo della Chindamo».

«Me lo disse Rocco…»

Il pm Frustaci e il capitano Bui vogliono dunque capire: da chi lo ha appreso, Mancuso? E, soprattutto, visto che la sua collaborazione con la giustizia risale al 2018, perché racconta tutto questo solo ora? La sua fonte, dice, è Rocco Ascone, figlio di Salvatore, a cui Emanuele regalò «una moto cross 250, nonostante la madre non fosse d’accordo, provento di un credito di droga, ma non ricordo da chi mi venne consegnata».

E ancora: «Rocco Ascone, ricevendo questo regalo da me, e considerando che il padre sfrutta lui ed il fratello senza dargli nulla, si legò ancora di più a me ed io mi guadagnai la sua fiducia. Era come se fossi un idolo per questi due ragazzini. Quindi Rocco mi disse che in venti minuti i maiali si erano mangiati il corpo della donna e che avevano triturato i resti delle ossa con una fresa o con un trattore. Questo racconto mi fu fatto qualche tempo dopo la scomparsa della donna».

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Sempre Emanuele Mancuso: «Ancora il figlio Rocco mi disse che Ascone era solito utilizzare la moto pala per scavare fosse dove atterrare bidoni contenenti droga (finanche la sostanza sintetica da taglio asiatica, che fa gli stessi effetti della cocaina) ed armi (fucili, mitra, pistole, eccetera)». Fatti, questi, non riferiti all’autorità giudiziaria nei primi sei mesi della collaborazione, iniziata in modo turbolento, in ragione del clamore che destò e delle violente pressioni psicologiche a cui fu sottoposto – per come, ribadiamo, emerge dai processi in corso, giunti a condanne non ancora definitive – affinché ritrattasse.   

Le confidenze a Cossidente

La prima persona a cui riferì tali circostanze fu un altro collaboratore di giustizia, ma non uno qualunque. Si tratta di Antonio Cossidente, l’ex boss dei Basilischi, la malavita organizzata lucana. Si conobbero nel carcere di Paliano e Cossidente, un tipo carismatico e molto rispettato dagli altri detenuti, lo prese sotto la sua ala – avendo, riferì l’ex mafioso potentino, «un figlio della stessa età di Emanuele». Cossidente divenne quindi il suo punto di riferimento quando, terminato il periodo di isolamento, con lui condivise la cella. Ciò avvenne dopo una brutale aggressione subita da Mancuso ad opera di uno degli scissionisti di Portici, l’ex camorrista Lorenzo Cozzolino, che divenne pentito subito dopo essere stato arrestato dal Ros nell’operazione Tramonto. Lo prese alle spalle e lo massacrò. Poi intervenne la direttrice del carcere, chiamò Cossidente e gli chiese di accogliere Emanuele Mancuso nella sua cella e di prendersene cura. E l’ex boss dei Basilischi non si sottrasse: «Nei momenti in cui volevo porre fine alla collaborazione – spiega il giovane pentito calabrese – mi esortava a concentrarmi, ad essere preciso, a ricordare le cose ed a non cedere alle pressioni dei miei familiari».

Corrispondenze

Lì, a Paliano, c’era un altro ex camorrista, uno di Ponticelli, Mario Morgese detto  ‘o Cecat, che spingeva affinché Mancuso ritrattasse le accuse verso il padre Luni: «Anche se io sono collaboratore però pensaci bene perché tu stai rovinando una famiglia… Io ci tengo assai a tuo padre… Levati l’avvocato Nicolini… Ti faccio mettere l’avvocato mio…», gli diceva. Cossidente, venuto a conoscenza dell’accaduto, chiamò ‘o Cecat e lo mise a posto: «Non ti permettere più di andare vicino ad Emanuele», disse a Morgese. E Mancuso invece: «Tu non ti metti nessuno, devi tenere all’avvocato Nicolini perché è una persona perbene…».Circostanze, comprese le confidenze ricevute sulla scomparsa di Maria Chindamo, che Pietro Cossidentemise a verbale il 7 febbraio 2020. Ciò collima con quanto raccontato da Emanuele Mancuso in questo verbale acquisito agli atti del procedimento Maestrale-Cartagho.

Collisioni

Collide, invece, con alcune intercettazioni telematiche che avevano quale bersaglio Rocco Ascone, il cui smartphone i carabinieri avevano infettato con un trojan. «Ormai non trovano niente più… ormai il vecchio se n’è andato e non trovano niente più!», diceva il padre Salvatore. Sostenendo, implicitamente, che la scomparsa di Maria Chindamo fosse addebitabile al suocero della donna, ormai deceduto. Aggiungeva, quindi, che con il suocero, altri suoi familiari stretti fossero a conoscenza di dove sia il corpo: «I nipoti lo sanno…». C’è un dato rilevante, però, riguardo questa intercettazione: con Salvatore ed il figlio Rocco era presente anche una terza persona, estranea alla loro cerchia familiare. Qualora gli Ascone avessero avuto davvero un ruolo nella scomparsa di Maria Chindamo, lo avrebbero ammesso candidamente davanti ad un estraneo?