A dividersi gli affari a Pizzo c’erano tre cosche: Mancuso, Anello e Bonavota. Lo racconta il collaboratore di giustizia Francesco Salvatore Fortuna, ex elemento di spicco del clan Bonavota.

«Il sistema, di cui facevano parte a pieno titolo anche i Mancuso – dice –, storicamente influenti (tra le altre) anche sul territorio di Pizzo, era che le ditte si rivolgevano alla propria cosca di riferimento, generalmente in base alla zona di provenienza o ai pregressi rapporti di vicinanza con un determinato gruppo mafioso, che poi a sua volta si relazionava con gli altri due. Faccio riferimento a dinamiche che ho vissuto direttamente e posso riferire che la maggior parte dei rapporti con le ditte venivano tenuti da Gregorio Gioffrè, referente diretto dei Mancuso, che poi si occupava di sistemare l’estorsione anche con noi dei Bonavota e con gli Anello. Preciso che c'erano anche dei gruppi che mal sopportavano la figura di un intermediario deputato a trattare con la ditta incaricata di svolgere un determinato lavoro, preferendo relazionarsi direttamente con l’impresa, come ad esempio gli Emauele, ma noi, quanto meno con riguardo alla zona di Pizzo, operavamo sempre nel modo che ho descritto, avvalendoci il più delle volte della figura di Gregorio Gioffrè».

L’incidente diplomatico dopo l’operazione Gringia

Fortuna tiene a precisare che quando parla dei Mancuso e delle attività spartitorie che la sua cosca aveva sul territorio di Pizzo, si riferisce sempre a Pantaleone Mancuso alias Scarpuni. Il clan di Sant’Onofrio avrebbe sempre mantenuto buoni rapporti con il boss di Limbadi fino agli arresti avvenuti con l’operazione Gringa che contemplava la faida tra Piscopisani e Patania. Nel corso di questa faida i Bonavota, vicini ai Piscopisani, avrebbero cercato di mettere pace con i Patania. Una pace sfumata in seguito all’intervento di Pantaleone Mancuso. Questo episodio, apparentemente, non aveva intaccato i rapporti tra Bovanota e Mancuso. Salvo nel momento in cui, con l’operazione Gringia, sono venute fuori le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia: «Specifico, infatti – racconta Fortuna –, che i rapporti tra le nostre consorterie inizialmente erano buoni e sono rimasti tali finché non sono state rese note le risultanze del procedimento "Gringia, ed in particolare le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia secondo cui Scarpuni avrebbe voluto la morte dei Bonavota».

L’intervento di Luigi Mancuso

Per sopperire alla tensione scaturita da queste rivelazioni, racconta Fortuna, il boss Luigi Mancuso, detto il Supremo, avrebbe interpellato il capocosca dei Bonavota: «Posso anche riferire, per averlo saputo direttamente da Domenico Bonavota, che Luigi Mancuso gli aveva mandato un’imbasciata dicendogli di non credere a quanto emerso dal procedimento predetto, secondo cui suo nipote Scarpuni avrebbe pianificato l'eliminazione della nostra cosca, in quanto sicuramente si trattava di menzogne, in quanto non c'era alcun motivo di scontro tra i nostri gruppi e che, in ogni caso, se così non fosse stato, suo nipote aveva sbagliato e che i rapporti tra loro dovevano restare buoni».

Le parole di Luigi Mancuso, noto per la sua politica non guerrafondaia, devono avere avuto effetto perché il collaboratore afferma che i rapporti tra i due gruppi erano sereni. E questo al netto del fatto che i Bonavota avevano comunque stretto alleanze con ‘ndrine contrapposte ai Mancuso come il gruppo di Andrea Mantella (oggi anche lui collaboratore di giustizia), gli Emanule e altre «tuttavia la cosca Bonavota non ha mai avuto un interesse diretto a contrapporsi ai Mancuso».