Nei primi rapporti di polizia, roba di quarant’anni fa, è indicato con il nom de crime “Quasimodo”, appellativo poco rassicurante che l’allora ventenne Francesco Patitucci si guadagna una sera d’inverno del 1981, quando è ancora un soldato semplice della banda di Franco Pino. C’è da disseppellire una coppia di cadaveri per distruggerne i resti, e lui insieme ad altri giovani e aspiranti gangster, si reca sulla montagna di Falconara Albanese per adempiere a quel compito.

Ciò che accade in quella notte da tregenda, reale o fantastico che sia, lo racconterà in seguito Antonio De Rose, il primo pentito della mala cosentina anche lui associato a quella lugubre spedizione. Quando i corpi dei due sventurati cominciano ad affiorare in superficie, i miasmi della putrefazione finiscono per sopraffare i presenti: alcuni vomitano, altri perdono i sensi, ma Patitucci no. Lui continua a scavare come se nulla fosse, e quando a un certo punto la sua vanga si rompe, completa l’opera a mani nude.

Ha inizio così, come in un racconto gotico, la parabola criminale dell’uomo che, quarant’anni dopo, l’inchiesta odierna immortala come capo indiscusso della confederazione di clan – ben sette – attivi tra Cosenza e l’hinterland; un ruolo che, dati causa e pretesto, in pochi gli avrebbero pronosticato. Grand guignol di Falconara a parte, infatti, il Patitucci delle origini sembra votato a un futuro da uomo d’azione più che da padrino.

Ragazzo cresciuto nella campagna rendese, di famiglia umile ma perbene, come tanti suoi coetanei dell’epoca si lascia irretire anche lui dal fascino oscuro di Franco Pino, distinguendosi fin da subito per un carattere impulsivo, per nulla incline al dialogo e al compromesso. Esordisce come rapinatore nel 1979 e  quando quattro anni più tardi il suo capo stringe un’alleanza con Cutolo, anche lui è sospettato di essere in quota alla Nuova camorra organizzata. Per l’occasione, la Procura di Napoli spicca un mandato di cattura nei suoi confronti, ma la storia finisce lì.

Comincia a collezionare arresti già a metà degli anni Ottanta, e tra condanne per omicidio preterintenzionale, associazione mafiosa (la prima) ed estorsioni, resta dietro le sbarre per circa quindici anni. A quel tempo il giovane Patitucci ha la guerra in testa, tant’è che pure uno dallo sguardo lungo come il boss cutoliano Peppino Cirillo, suo compagno di cella per un breve periodo, lo ribattezza in modo sbrigativo “U pacciu”. Un errore di valutazione, ma l’allora signore della Sibaritide non sopravvivrà abbastanza per comprenderlo.

A scandirne la metamorfosi, con ogni probabilità è proprio la lunga detenzione, e quando torna in libertà, nel 2006, scopre la sua vera vocazione: il racket. Ma non le piccole estorsioni ai commercianti, la sua cifra è rappresentata dalle tangenti in formato maxi che spilla ai cantieri edili del capoluogo e del circondario. Dapprima alza la voce per intimidire, poi col tempo non ne avrà più bisogno. La più recente, inserita nell’ultima inchiesta e perpetrata a scapito di un costruttore, si risolve letteralmente così: “Allora, ti ammazzo a te al tuo socio. Devi darmi la pila. Vai a prendere i soldi”. Poche e sentite parole.

Proprio il denaro a fiumi che traghetta nelle casse dell’organizzazione, è uno dei meriti che gli consente di operare una rapida scalata al vertice; l’altro è rappresentato dalla sua lunga e onorata carcerazione, in buona parte al 41 bis. Nella scala gerarchica, subito dopo Ettore Lanzino c’è lui.

Che qualcosa è cambiato, che non sia più lo stesso Patitucci di vent’anni prima, la polizia comincia ad averne il sentore nel 2008. Gli agenti lo fermano per un controllo insieme a Gianfranco Bruni, un altro della vecchia guardia, e in un’annotazione di servizio riportano le parole sinistre che quest’ultimo, quasi a mo’ di avvertimento, rivolge loro: “Se arrestate me e Patitucci, vuol dire che pace a Cosenza non ne volete”. Proprio in quei giorni, infatti, l’ormai ex fumantino sta portando a termine il suo capolavoro di diplomazia criminale: ammansire il giovane boss Michele Bruni che, animato da propositi di vendetta per la morte del padre, rappresenta una minaccia per l’allora neonata confederazione. Patitucci lo mette sotto la propria ala protettiva, lo induce a più miti consigli e risolve il problema. Ormai è uomo di pace, non di guerra.

Ha un nome che nell’ambiente comincia a fare scuola, tant’è che un apprendista racketeer come Mattia Pulicanò, cresciuto alla sua ombra, anche da pentito ricorderà con malcelato orgoglio il soprannome che si era guadagnato per quella sua abilità antisociale: “Il piccolo Patitucci”.

Il suo prestigio criminale ha ormai raggiunto l’acme quando nel 2011 incassa un nuovo arresto e poi un’altra condanna per associazione mafiosa (la seconda), e proprio in quel periodo, secondo un pentito reggino nelle carceri si apre una discussione sull’opportunità di metterlo alla guida di un locale di ’ndrangheta da inaugurare per l’occasione nella città dei bruzi. Non se ne farà nulla.

Rimane al fresco per cinque anni, ma appena tornato in circolazione, ad attenderlo trova una nuova stagione di processi. E stavolta si parla di omicidi. Un’accusa analoga, relativa a un vecchio delitto del 1983 (Pippo Ricioppo) l’aveva sfiorato anni prima, ma senza conseguenze. Gli va bene anche al secondo round, quando la Dda gli contesta vanamente la partecipazione all’uccisione di Luca Bruni avvenuta in tempi più recenti (nel 2012, vicenda controversa sulla quale aleggia l’ombra del giudice Marco Petrini), ma al terzo tentativo l’Antimafia fa centro.

Fatale per lui è un altro “peccato” di gioventù, il duplice omicidio Lenti-Gigliotti (1986) del quale è riconosciuto colpevole. Ormai ha sessant’anni, metà dei quali trascorsi in carcere, e così durante il processo non si nasconde dietro a un dito: riconosce i crimini del passato, ma non gli omicidi. E spiega di aver tagliato i ponti con l’ambiente già dal 2011. La sentenza, che non è ancora definitiva, si traduce per il momento in un ergastolo che, un anno fa, lo ha riportato dietro le sbarre. Proprio lì dove giovedì gli è caduta addosso una nuova tegola giudiziaria. Verosimilmente l’ultima.