Piani d’omicidio, estorsioni, danneggiamenti, usura, droga, armi. È un campionario di reati variegato quello di cui Bartolomeo Arena accusa l’ex sodale e amico Francesco Antonio Pardea, erede della famiglia dei Ranisi, deciso a «riprendersi Vibo», dopo la sua scarcerazione avvenuta nel 2015. Completa il suo profilo prima di passare agli altri riconoscimenti fotografici.

Riconosce, ad esempio, Loris Palmisano, vittima di un accoltellamento da parte dello stesso Pardea: «Tutto è partito da lì – racconta Arena – perché poi sono nati i primi malumori con i Lo Bianco. C’erano già stati degli screzi  e si erano fatti avanti come pacieri gli Alvaro di Sinopoli. In pratica Palmisano non si doveva fare vedere a Vibo per qualche tempo e noi non lo dovevamo toccare. Ma lui non solo si faceva vedere ma frequentava una ragazza nello stesso stabile dove abitava Pardea. E quindi è stato accoltellato. I Lo Bianco ci accusarono di aver violato gli accordi ma le cose non stavano così, noi non avevamo violato nulla, è stato Palmisano a violare l’accordo».

Con i Lo Bianco ci fu poi una discussione, in ragione dello scontro con Palmisano, racconta il collaboratore. Poi la tensione si allentò. L’episodio si inserisce in un contesto in cui i rampolli del crimine organizzato camminavano per Vibo armati di pistola e le discussioni spesso degeneravano in sparatorie: «Lo stesso Palmisano, i seguito ad un furto, ha sparato a Saverio Ramondino».

Arena, quindi, riconosce anche Salvatore Furlano: «Detto “Testazza”, a Vibo è il numero uno delle armi – dice il pentito -. Una volta siamo stati a Natile di Careri da un amico suo per reperire droga. Era parente con Raffaele Franzé detto lo Svizzero ed ha fatto parte del nostro gruppo. Ha la dote di camorrista e come tale ha partecipato alla riunione di ‘ndrangheta acquisendo altre doti. Lui non era d’accordo con la logica di Mommo Macrì che voleva andare a tutti i costi contro i Lo Bianco. Era uno dedito all’usura ed è stato arrestato nell’operazione Insomnia per i soldi che diede al gioielliere Giuseppe Sergio Baroni». Arena racconta anche dell’usura patita da un fabbro originario di Vibo Valentia che opera nella zona di Ionadi e del sequestro di una serie di formule di affiliazione sequestrato allo stesso Furlano nel negozio di abbigliamento Giannini nel quale lavorava.

Furlano, peraltro, subì l’incendio di un’auto, in seguito ad uno screzio - rammenta il collaboratore - con Sergio Gentile detto Tobba, che farebbe parte dei Lo Bianco-Barba. Così Furlano e Arena siglarono un patto: Arena avrebbe sparato Gentile, mentre Furlano avrebbe dovuto sparare Salvatore Lo Piccolo, da poco uscito dal carcere per aver ucciso la madre della compagna dello stesso collaboratore di giustizia. Lo Piccolo in effetti subì un agguato senza essere colpito. Gentile invece la scampò perché la pianificazione dell’agguato non fu efficace e la stessa vittima designata fu arrestata. Come ripiego, furono sparate le serrante del bar al fratello di Gentile, Emilio.

Sergio Gentile, secondo Arena, durante la detenzione nel carcere di Laureana di Borrello, sarebbe stato rimpiazzato da Pasquale Oppedisano, nipote di Domenico Oppedisano. Nella sua copiata – dice il pentito – sarebbero stati inseriti Carmelo Lo Bianco e Domenico Camillò, zio dello stesso collaboratore e presunto capo del rinato gruppo dei Ranisi. Uscito dal carcere, Gentile si sarebbe recato per manifestare la sua gratitudine proprio da Domenico Camillò. «Proprio perché sapevamo fosse stato formalmente rimpiazzato – prosegue il teste – non doveva commettere quell’azione nei confronti di Furlano e quindi di un appartenente al nostro gruppo».