Non c’erano le istituzioni e neanche le associazioni antimafia, ieri, in Corte d’assise a Catanzaro per l’inizio del processo sull’omicidio di Matteo Vinci, il biologo di Limbadi dilaniato da un’autobomba il 9 aprile dello scorso anno. Nonostante il grande clamore mediatico e gli attestati di stima ai genitori del 42enne, nessun ente o associazione ha ritenuto di costituirsi parte civile nel processo. Assenze che hanno provocato la reazione della famiglia Vinci, amareggiata per questa decisione delle istituzioni.

 

«L’omertà non è solo non denunciare un sopruso – ha attaccato Sara Scarpulla, madre di Matteo Vinci – Ci saremmo aspettati di avere insieme a noi nel processo le istituzioni e le associazioni. Hanno deciso di non costituirsi parte civile: anche questa è omertà». Alla sbarra nel processo ci sono Rosaria Mancuso, il marito Domenico Di Grillo, le loro figlie Rosina e Lucia Di Grillo e il marito di quest’ultima Vito Barbara. Secondo gli inquirenti Matteo Vinci sarebbe stato ucciso per la pretesa, da parte della famiglia vicina al clan Mancuso, di vedersi ceduto un terreno.

 

Tutti sono accusati di omicidio aggravato dal metodo mafioso, possesso illegale di armi e anche del tentato omicidio di Francesco Vinci, padre di Matteo, pestato a sangue nel 2017. Dopo i molti attestati di stima ricevuti dalla famiglia Vinci subito dopo il barbaro delitto, però, istituzioni e associazioni hanno disertato il processo. Una decisione che mamma Sara ha vissuto come un affronto alla memoria di suo figlio. «Il prefetto (Antonio Rappucci, commissario che gestisce il comune di Limbadi dopo lo scioglimento per infiltrazioni mafiose, ndr) – ha aggiunto la Scarpulla – ha detto che c’è sempre tempo per costituirsi parte civile. Mi dispiace, ma il momento giusto era ieri, e tempo non ce n’è più. Non abbiamo bisogno di vicinanza a parole, ma con fatti concreti».

 

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