Le premesse per un processo “Meta bis” ci sono tutte: sarà solo questione di tempo. È questa la sensazione che emerge dopo la decisione della Corte di Cassazione che ha annullato senza rinvio le sentenze emesse sia dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria che dal Tribunale di primo grado, disponendo la trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica.

 

Prima di analizzare nel dettaglio la decisione della Suprema Corte, però, occorre fare una premessa: abbiamo letto nelle ultime ore che il processo “Meta”, che ha visto alla sbarra il gotha della ‘ndrangheta visibile della città di Reggio Calabria, sia stato demolito e la sua impostazione accusatoria totalmente crollata. Nulla di più errato: giuridicamente e fattualmente. Il motivo di un tale errore va certamente ricercato nelle notizie frammentarie giunte nella tarda serata di ieri, quando ancora non era ben chiaro quale fosse l’orientamento dei giudici romani, divenuto certamente molto più intellegibile nella mattinata odierna. Sgombriamo il campo, allora, da facili semplificazioni: l’impalcatura del processo “Meta” è ben salda, così come la sentenza emessa con rito abbreviato conferma.

Correlazione fra accuse e sentenza

Cosa è accaduto allora, di tanto grave, da portare ad una simile decisione? Partiamo dal dispositivo per poi tentare di spiegare i diversi percorsi argomentativi seguiti dalla Corte. I giudici hanno annullato senza rinvio le due sentenze nei confronti dei boss Pasquale Condello, Domenico Condello, Giuseppe De Stefano, Giovanni Tegano e, per effetto del cosiddetto principio dell’estensione dell’impugnazione, anche nei riguardi di Pasquale Libri. In sostanza, il ricorso degli altri coimputati ha giovato anche per la posizione di Libri che, pure, non aveva presentato la medesima impugnazione.

 

Chiarito ciò, andiamo al cuore della decisione: i giudici hanno annullato limitatamente al reato di associazione mafiosa per «difetto di correlazione fra imputazione contestata e sentenza», disponendo la trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria. Tradotto: la sentenza di primo grado, così come rilevato già dai giudici d’Appello, si era spinta ben oltre ciò che era contenuto all’interno del capo d’imputazione contestato dalla Dda di Reggio Calabria. Il nostro codice, a tal proposito, prevede proprio il principio secondo cui la sentenza non possa decidere su un tema diverso da quello individuato dal pubblico ministero, proprio per la necessaria correlazione fra l’imputazione e la sentenza. Da qui la decisione, che definiremmo “tecnicamente obbligatoria”, di un annullamento senza rinvio. Ma la restituzione degli atti in Procura fa capire che non siamo di fronte ad una bocciatura dell’impianto accusatorio, quanto alla richiesta ai pubblici ministeri di decidere se esercitare o meno nuovamente l’azione penale. Circostanza che, senza alcun dubbio, si verificherà.

L’errore del Tribunale di primo grado

Tutto nasce dalle motivazioni con cui il Tribunale, allora presieduto da Silvana Grasso, condannò i vertici delle cosche reggine, andando decisamente oltre ciò che il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, aveva contestato. Il tema centrale era l’esistenza di un “direttorio”, organismo composto dal vertice dei quattro clan più influenti, nato con l’obbiettivo di coordinare le strategie politico-criminali e gestire le estorsioni. È accaduto, però, che, mentre per la Procura era pacifico che tale direttorio fosse un organismo di coordinamento, chiaramente inserito in un contesto già ben delineato, per il collegio, invece, si trattasse di una struttura autonoma.

Le parole del pm Lombardo e l’imputazione

Che non si trattasse di qualcosa di diverso e staccato si evinceva in modo abbastanza chiaro già dai capi d’imputazione. Si leggeva, infatti, come il direttorio, composto dai vertici delle famiglie De Stefano, Condello, Tegano e Libri, fosse un articolato organismo decisionale di tipo verticistico, sì da dotare la componente visibile della ‘ndrangheta «di una struttura gerarchica piramidale di più moderna concezione maggiormente in grado di garantire l’impermeabilità informativa, l’agilità operativa, il proficuo perseguimento degli scopi programmati e la compiuta interrelazione con gli ulteriori soggetti a cui carico si procede separatamente dotati di cariche invisibili e inseriti nel più ampio sistema criminale di riferimento». Una ulteriore sottolineatura era giunta anche dallo stesso pm nel corso della sua requisitoria: «Il direttorio – disse in aula Lombardo –  è un organismo decisionale di tipo collegiale che assume determinate decisioni e non è paragonabile a un consiglio d’amministrazione, perché sarebbe riduttivo. In realtà, ogni singola articolazione ha un proprio Cda. Noi ci troviamo in presenza di un gruppo industriale che ha un consiglio di gestione di vertice che è composto dai vertici dei singoli consigli di amministrazione, che quando sono chiamati a prendere determinate decisioni si confrontano all’interno del consiglio di gestione della società capogruppo e in quella sede approvano tutta una serie di linee che devono essere osservate dalle partecipate».

Nessuna superassociazione

Da qui si evince come l’accusa non abbia mai parlato di una superassociazione, come, invece, contenuto all’interno della sentenza di primo grado. Nessuna entità autonoma, ma solo un organismo in grado di rappresentare la cerniera fra la struttura visibile e quella invisibile. Ed ora che il processo “Gotha” sta svelando l’esistenza di una cupola di invisibili, un processo “Meta bis” si preannuncia quanto mai interessante, proprio per completare quel lavoro che negli anni 2010-2013 non fu possibile portare sino in fondo.