Il racconto di Pasquale Megna: ‘u Pinnularu non si sarebbe solo limitato a spegnere le telecamere durante l’agguato. La moglie del narcotrafficante minacciava di collaborare con la giustizia e intercettata dal Ros diceva: «Se parlo gli faccio prendere l’ergastolo» (ASCOLTA L'AUDIO)
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«Io, pe’ quattru sordi, a chija eppi ‘u m’a juntu ‘ncojiu (Per quattro soldi quella me la sono dovuta caricare addosso)». Parole pronunciate in un momento di stizza da Salvatore Ascone ad Assunto Megna, presunto faccendiere del clan Mancuso, che si era recato da lui per dirimere una controversia economica che interessava lo stesso Ascone, narcotrafficante legato mani e piedi alla mala limbadese. “Quella”, non hanno dubbi gli inquirenti, è Maria Chindamo, l’imprenditrice di Laureana di Borrello, uccisa e fatta sparire la mattina del 6 maggio 2016. Assunto Megna, rientrato a casa, ne parlò col figlio, Pasquale, che oggi è collaboratore di giustizia.
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È un dettaglio di straordinaria importanza, per la Procura antimafia di Catanzaro e gli specialisti per i Crimini violenti del Ros Centrale che hanno dato una svolta alle indagini. Salvatore Ascone, note alle cronache come ‘u Pinnularu per la sua capacità di muovere ingenti quantitativi di stupefacenti, non avrebbe solo spento le telecamere della sua tenuta, che sarebbero state nelle condizioni di riprendere attimo per attimo l’aggressione e forse l’omicidio di Maria, ma – scrivono i pm di Catanzaro – si sarebbe anche «occupato del corpo di Maria».
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Un delitto atroce, che anche Assunto Megna, parlando col figlio oggi pentito, avrebbe condannato: «Guarda questo pezzo di merda che ha fatto», le sue parole. Il racconto di Pasquale Megna si intreccia a quello di altre gole profonde – Emanuele Mancuso, Andrea Mantella, Tito Belnome – che puntano l’indice su Ascone quale compartecipe nell’omicidio. Ma i pm di Catanzaro e i carabinieri del Ros sono andati ben oltre, arrivando ad intercettare la famiglia Ascone fin dentro le mura domestiche e ciò ha consentito di cogliere un clima tutt’altro che d’unità all’interno. ‘U Pinnularu sarebbe stato un uomo d’indole violenta anche in famiglia, al punto da esasperare la moglie che durante una la messa in onda di un servizio di Chi l’ha visto? sul caso Chindamo che aveva diffuso una intervista al procuratore di Vibo Valentia Camillo Falvo, imprecava contro il marito: «Che non mi faccia parlare, che gli faccio prendere l’ergastolo… Gli faccio prendere l’ergastolo». A quel punto la donna era zittita dal figlio Rocco: «Basta! Basta! Basta! Basta! Stai zitta, basta! Muta, muta! Queste cazze di cose le odio io, le odio!». In un altro sfogo ai figli riferiva di aver «smarrito il numero del procuratore Gratteri», alludendo alla possibilità di collaborare con la giustizia «facendo arrestare a tutti».
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La moglie di Ascone, inoltre, riferiva di avere nascosto un’arma e che avrebbe avvisato con una telefonata anonima le forze di polizia. Il tutto per far arrestare il marito, uno che «i nemici se li siede al tavolo e poi li ammazza». Intercettazioni preziosissime, in chiave investigativa, nell’ambito di un’indagine particolarmente complessa, alla quale hanno offerto un contributo coraggioso, limpido e coerente, il fratello di Maria, Vincenzo, ed i figli Vincenzino, Federica e Letizia.
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Nell’insieme, affiorano due moventi convergenti: una vendetta maturata nel contesto familiare della donna che fu uccisa perché ritenuta «moralmente responsabile» del suicidio del marito Ferdinando Punturiero, un uomo buono ed innamorato, che esattamente un anno prima si era tolto la vita non sopportando la fine del suo matrimonio e la nuova relazione intrapresa dalla donna che amava; gli interessi che Salvatore Ascone aveva sui terreni confinanti ai propri, tra cui appunto quelli di Maria. L’ipotesi accusatoria è che il suocero odiasse Maria in ragione della morte del figlio e che avesse trovato sponda in Ascone interessato ad espandere i suoi possedimenti.