Un omicidio maturato nel tempo in un contesto di rancore e rabbia. E poi, ancora, i pedinamenti, lo studio delle abitudini del fotografo rivelatosi schivo e riservato tanto da dovere concludere che per essere attirato fuori dal suo laboratorio bisognava per forza utilizzare la scusa di un lavoro da svolgere fuori.


Non ci sono solo le ammissioni del pentito Gennaro Pulice nelle motivazioni depositate dopo un anno dalla sentenza con il quale lo stesso collaboratore di giustizia è stato condannato alla pena di dieci anni di reclusione per l’omicidio del fotografo lametino, carabiniere in congedo, Gennaro Ventura.


Nelle sedici pagine del dispositivo vengono articolate anche tutte le dichiarazioni raccolte nel tempo dai diversi pentiti, perché furono in tanti a parlare negli anni di quell’ex carabiniere a cui i Cannizzaro volevano farla pagare. Se a premere il grilletto due volte fu Pulice, dopo avere portato con la scusa di un lavoro Ventura in un casolare abbandonato in cui sarebbe stato ritrovato anni dopo in una vasca per il mosto in disuso, ad organizzare con tenacia e rabbia l’azione omicidiaria sarebbe stato Domenico Antonio Cannizzaro. Lui il regista, Pulice la mano.

Le dichiarazioni dei pentiti

Già il pentito Gianfranco Norberti nel 2011 aveva spiegato agli inquirenti il contesto in cui era maturato il delitto. Durante una cena sarebbe stato lo stesso Pulice a parlargli di «screzi con un fotografo per questioni di droga dicendo che voleva farlo fuori».


Fu poi la volta del collaboratore Massimo di Stefano: «Nel ‘94/’95 i Torcasio mi avevano chiesto di portare da loro Gennaro Ventura facendomi capire che lo volevano ammazzare sia per fatti legati ad un’operazione di droga alla quale Ventura aveva partecipato mentre si trovava a Tivoli e che concerneva sostanza stupefacente gestita da gente dei Morabito/Pizzata e dei Cannizaro per mezzo di un loro parente a nome Rao, sia per fatti donne».


Poi Pulice che, raccontando di quando Ventura, nella veste ancora di uomo dell’Arma, partecipò all’arresto di Raffaele Rao, cugino di Cannizzaro, spiegò che secondo Rao era sparita una parte della droga sequestrata e che sarebbe stata applicata a suo carico una procedura non corretta. Secondo Pulice, Rao «si sentiva di avere subito un abuso da parte di Ventura». «Mimmo Cannizzaro si segnò l’offesa – aggiunse – e colse il momento giusto per vendicarsi».

 

Una persona riservata, un topo da laboratorio Ventura, racconta ancora il pentito. I sopralluoghi nel negozio però dimostrarono che l’omicidio lì non era possibile perché sempre frequentato, in particolare dalla madre e dalla moglie del fotografo, e il rischio che ci fossero feriti era troppo alto. Poi l’idea di attrarlo in trappola parlandogli del ritrovamento di alcuni reperti archeologici di cui Pulice voleva fare delle foto. «Non pensavo che nella sua agenda personale scrivesse appuntamento con Gennaro Pulice, cosa che invece fece».

 

Il pentito Pietro Paolo Stranges nel 2014, si legge nelle carte della sentenza, offrì poi ulteriori dettagli, stavolta collocati temporalmente nel 2008, cioè quando le ossa vennero ritrovate in occasione della vendita del terreno. Stranges spiega che sarebbe stato lo stesso Cannizzaro ad ammettere di essere lo stratega dell’omicidio perché Ventura avrebbe mandato in galera il cugino che dietro le sbarre sarebbe «andato fuori di testa».


Il 10 maggio a più di un anno dalla sentenza di condanna, il deposito delle motivazioni. Pulice dovrà anche risarcire le parti civili per 80 mila euro. Intanto, da collaboratore di giustizia, vive in una località protetta.