Il rogo è avvenuto qualche giorno fa nel frutteto dell'imprenditore in una zona collinare di Reggio Calabria. In fumo anche macchinari per svariate migliaia di euro: «Stanco, deluso e in attesa di giustizia». A novembre l’udienza al Tar per decidere sulla revoca della scorta
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Un incendio. Le fiamme che si levano alte e distruggono tutto. E così, Tiberio Bentivoglio, testimone di giustizia che si è ribellato alla ‘Ndrangheta diventando un simbolo della resistenza alla prevaricazione mafiosa, ripiomba nuovamente in un incubo vissuto già abbondantemente e a più riprese negli anni scorsi. Un nuovo atto intimidatorio, di chiara matrice dolosa, riporta indietro le lancette del tempo.
Servono pochi minuti, quelli necessari a percorrere la distanza che vi è tra l’auto di scorta che si ferma a pochi metri dal frutteto di sua proprietà ad Orti, frazione collinare di Reggio Calabria, e il cancello d’ingresso. Tutto avviene qualche giorno addietro intorno alle 7.30 del mattino. Bentivoglio si reca spesso in quel podere, lì dove una mano criminale, nella mattinata del 9 febbraio 2011, aprì il fuoco all’indirizzo dell’imprenditore reggino tentando di ucciderlo. Questa volta il testimone di giustizia si accorge che qualcosa non va in prossimità dell’ingresso: c’è dell’acqua che scorre e un tubo di plastica completamente bruciato. Il poliziotto che tutela la sua sicurezza lo blocca immediatamente. È l’agente ad entrare all’interno del frutteto e l’immagine che gli si presenta davanti è spettrale: il manufatto, adibito a deposito agricolo, è totalmente distrutto con tutto ciò che vi era all’interno, ossia strumenti come motozappe e motocoltivatori di particolare valore. Tutto carbonizzato.
Bentivoglio manca da quei luoghi da qualche giorno. Il podere è piuttosto isolato e, dunque, facile da raggiungere per chi ha intenti criminali.
Rogo di natura dolosa
Le abbondanti piogge, questa è la ricostruzione avvenuta nelle ore successive al rinvenimento del manufatto carbonizzato, hanno spento il rogo, portando via persino l’acre odore del fumo che solitamente rimane impregnato per settimane. Sul posto giungono i carabinieri. In un primo tempo intervengono anche i vigili del fuoco. Poi, l’arrivo degli specialisti del Sis dell’Arma, le sezioni investigazioni scientifiche facenti parte dei Ris, serve a “congelare” la scena. Una certezza sembra emergere subito: nessuna autocombustione o simili. L’incendio ha una chiara matrice dolosa e l’innesco è stato effettuato con tutta probabilità con della benzina, facendo partire il rogo da due diversi punti.
Le intimidazioni e il tentato omicidio
Per Tiberio Bentivoglio è una scena già vista. È quello il luogo nel quale fu piazzata una bombola piena di gas davanti al cancello d’ingresso. Così come è quello il luogo prescelto per piazzare sul cancello 40 centimetri di salsiccia con un messaggio sinistro molto chiaro. Ma, come accennato, quel frutteto è soprattutto il teatro del tentato omicidio che nel febbraio di 13 anni fa stava per mettere fine all’esistenza di un uomo che ha sfidato la ‘Ndrangheta con le sue denunce. In quel caso, alla furia omicida dei sicari in moto si oppose una singolare e fortunata circostanza: il proiettile diretto alla schiena di Bentivoglio, e che quasi certamente ne avrebbe provocato la morte, fu bloccato da un marsupio in cuoio che ne attutì l’impatto.
Qualche giorno fa, all’imprenditore reggino è sembrato di rivivere un flash back dal gusto particolarmente amaro. Titolare di una sanitaria un tempo ubicata nel quartiere Condera di Reggio Calabria, Bentivoglio e sua moglie, Vincenza Falsone, finirono nel mirino della ‘Ndrangheta per essersi opposti al pagamento del pizzo già dal 1992. Prima furti di merce per centinaia di migliaia di euro, l’incendio di un mezzo aziendale e, infine, la distruzione della sanitaria “S. Elia” il 5 aprile del 2003.
Come allora, anche pochi giorni addietro, dunque, il fuoco è il mezzo prescelto dai balordi per incutere ulteriore timore a Tiberio Bentivoglio.
L’isolamento imprenditoriale e la revoca della scorta
Per l’imprenditore reggino, però, l’aspetto forse più duro da digerire è quello riguardante uno strisciante e singolare isolamento cui è stato sottoposto nel corso del tempo e che lo ha portato spesso a pensare di desistere e lasciare tutto. Propositi sempre rientrati perché non è possibile darla vinta alla ‘Ndrangheta che ha sempre desiderato la fine delle attività di Bentivoglio e della sua famiglia. E così lui è andato avanti non piegando mai la testa e affrontando tutte le difficoltà, anche quelle derivanti da questioni burocratiche statali.
Oggi, però, la situazione diventa ancora più complicata a seguito della decisione, da parte del Ministero dell’Interno, di revocare la scorta al testimone di giustizia. Con una semplice telefonata, nell’aprile scorso, una funzionaria annunciava la fine del servizio di protezione. Una decisione incomprensibile per Bentivoglio che, anche in quel caso, non si è fermato e ha presentato ricorso d’urgenza del Tar del Lazio che, ritenendo sussistenti le ragioni di estrema gravità e urgenza, ha sospeso la revoca della scorta, in attesa della decisione nel merito che arriverà nel prossimo mese di novembre.
L’imprenditore: «Stanco e deluso. Ma le mafie non dimenticano»
Bentivoglio, ormai da otto anni, ha aperto la sua sanitaria sul lungomare di Reggio Calabria, pagando l’affitto di un bene confiscato alla mafia e assegnato al Comune reggino. «È l’unico caso in Italia per un testimone di giustizia ed è uno schiaffo per le cosche», afferma quando lo incontriamo. Ma appare molto provato da questo nuovo atto intimidatorio: «Rimango in attesa di giustizia. Mi piace ripensare ad una frase di Giovanni Falcone che credo dipinga bene cosa sia la ‘Ndrangheta, sebbene lui si riferisse alla mafia. Diceva: “La mafia è una pantera. Agile, feroce, dalla memoria di elefante”. Ciò per dire che la ‘Ndrangheta non dimentica. E se io ho denunciato vent’anni fa, questo non significa che i mafiosi dimentichino cosa è avvenuto. Sono stanco, sono deluso, ma so che quei commercianti che hanno denunciato continuano a rimanere nel mirino delle mafie. Possono passare anni anche, ma la vendetta arriva». E quanto avvenuto pochi giorni fa nel frutteto di Ortì sembra un sinistro ed eloquente promemoria per Bentivoglio e tutta la sua famiglia. E indirettamente, forse, anche per le istituzioni.