Tante bottiglie incendiarie lasciate a mo’ di avvertimento e qualche bomba fatta esplodere qui e là. Imprenditori trascinati al cospetto del boss per convincerli a conciliare e altri che, invece, si recano spontaneamente da lui per pagare il pizzo. E nel mezzo le minacce. Tante minacce, anche colorite, dispensate alle vittime in caso di ritardi nei pagamenti.

Era questo, per come ricostruito dalla Dda di Catanzaro, il modus operandi in tema di racket del presunto clan Calabria-Tundis, messo in ginocchio ieri da trentasette misure cautelari di cui venticinque fra carcere e domiciliari. Fra le altre cose, il gruppo è ritenuto responsabile di numerose intimidazioni mafiose compiute, a partire dal 2018, in un segmento del Basso Tirreno cosentino compreso fra i comuni di San Lucido e Longobardi, con in mezzo Fiumefreddo. Gran parte di tali episodi sono stati ricostruiti spiando le conversazioni di alcuni membri del clan in modalità ambientale.

Leggi anche

Pignoramenti mafiosi

È nell’ottobre di quell’anno che il costruttore impegnato nei lavori di adeguamento sismico di una scuola riceve la “chiamata” di pagamento del pizzo, ma almeno inizialmente fa orecchie da mercante. Per indurlo a più miti consigli, lo invitano in un ristorante dove ad attenderlo c’è Pietro Calabria, il presunto capoclan, che gli impone il versamento di quindicimila euro. Il costruttore mette le mani avanti: pagherà, ma gli serve un po’ di tempo. E come “garanzia”, Calabria decide di prendersi la sua automobile. L’imprenditore cerca di convincerlo a non farlo, ma l’uomo è irremovibile e, in seguito, racconterà al coindagato Andrea Tundis gli argomenti da lui utilizzati per chiudere la questione: «[Gli ho detto] Ti devi stare zitto quando parlo io, non devi parlare proprio, se ti dico che puoi parlare parli. Ora ti devi stare zitto. E te ne vai a piedi». 

Un lunedì triste

Il titolare di un cantiere che deve versare settecento euro all’organizzazione è inadempiente. I soldi, peraltro, sostiene di averli già dati a un altro racketeer che si è presentato da lui «a nome di Calabria». Un abusivo, ma ciò non modifica l’ordine innaturale delle cose. Anche in questo caso, Pietro Calabria racconta ai suoi di aver fermato l’imprenditore per fargli un discorsetto: «Gliel’ho detto: non ti picchio che non ti picchio, perché altrimenti dovevo farti la testa tanta. Quanti mesi sono passati? Quattro? E ora ti dico: lunedì porta i soldi. Non ti ricordi quanti sono? Ah, settecento. Lo vedi che ti ricordi?». E in attesa del lunedì fatidico, affronterà lo stesso discorso con suo fratello, spiegando anche a lui il modo con cui, poco prima, ha catechizzato la vittima di turno: «Gli ho detto (…) bacia per terra che già non ti sto picchiando ora, bacia per terra».

Chiedere “permesso”

In un certo qual modo, tengono molto anche alla forma. La ditta che sta eseguendo lavori di bitumazione sulle strade di San Lucido non sa, perché forse non è informata, che per entrare in casa degli altri bisogna prima bussare. Del resto, sono “forestieri”. «Questo schifo con questo che viene e fa i porci comodi suoi senza chiedere permesso deve finire» si lamenta Pietro Calabria, che chiede subito ai suoi di convocare l’imprenditore in questione. Riuscirà a parlare con un suo emissario che lo rassicura in merito: la ditta si metterà in regola con lui. «Gli ho detto: la prossima volta che vieni, che devi venire qua, devi venire da me!».

Leggi anche

Denti e lingua

Altri due fratelli che operano nel settore nautico pagano il pizzo, ma sono in ritardo con la rata di Ferragosto. Passa un solo giorno e ancora Calabria spiega a Tundis di aver messo a posto le cose anche con loro. Dice di aver parlato con uno dei due fratelli, mentre l’altro aspettava in macchina. «È venuto già tutto cacato sotto. Gli ho detto: la prossima volta gli dici a quel pisciaturo che è in macchina che gli faccio cadere i denti a uno a uno, la lingua gliela faccio a pezzetti».

La vittima ideale

Con il titolare di una ditta incaricata di rimuovere, in subappalto, un’antenna telefonica, non c’è bisogno di ricorrere alle minacce. L’uomo non attende neanche la chiamata estorsiva, è lui che contatta “chilli buoni” per chiedere qual è l’importo che deve pagare. Dice che la sua commessa ammonta a duemila euro, ma secondo i Calabria è cinque volte tanto. Dettagli. Le telecamere di sorveglianza filmano il suo ingresso spontaneo nella residenza dei Calabria-Tundis. Non è chiaro quanto denaro abbia consegnato loro né se lo abbia fatto quel giorno, ma tant’è: per il giudice «ciò dà contezza ancora una volta della dimensione ambientale dell’estorsione».

Uomini di “ambiente”

Il gip le qualifica così, «estorsioni ambientali», perché commesse da un gruppo criminale che «spadroneggia su un determinato territorio» e la cui forza è percepita «in modo concreto» dagli abitanti della zona. All’interno del gruppo, però, c’è chi questa «forza» sembra non averla. Alcune vittime, infatti, non si piegano o tardano a farlo perché l’approccio con loro è troppo morbido. Ecco come Pietro Calabria redarguisce una di queste persone che, a suo avviso, «non sa parlare» come invece dovrebbe parlare: «Ci stanno prendendo a schiaffi le persone, eh! E galera solamente prendiamo. Altrimenti ci lasciamo perdere che è meglio». Lo è, lo è. Certo che lo è.