Il capogruppo di Fratelli di Italia in consiglio regionale arrestato nell'ambito dell'operazione Libro nero nel corso dell'interrogatorio di garanzia si difende e respinge tutte le accuse
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«I Libri a me non mi hanno votato». È una difesa netta e categorica quella di Alessandro Nicolò, il capogruppo di Fratelli di Italia in consiglio regionale, arrestato con l’accusa di essere un politico e un uomo del clan di Cannavó nell’ambito dell’indagine Libro Nero. Ai gip e ai pm Stefano Musolino e Walter Ignazitto l’indagato respinge tutte le accuse e fornisce la propria versione dei fatti. Una versione che non convince gli inquirenti, ma che Nicolò - assistito dal legale Corrado Politi - difende e sostiene durante tutto l’interrogatorio.
«Repaci? Me lo sono ritrovato lì»
Una delle contestazioni più difficili da superare è l’inserimento nella sua struttura consiliare di Pasquale Repaci, padre di Anita Repaci che è la compagna di Filippo Chirico, ritenuto il reggente della cosca Libri in virtù del suo precedente matrimonio con la figlia del mammasantissima Pasquale Libri e recentemente condannato a 20 anni di carcere nel troncone abbreviato del processo “Teorema-Roccaforte”. Per la Dda ciò comproverebbe il legame a doppio filo con la cosca Libri, ma Nicolò spiega come Repaci fosse già un dipendente del consiglio regionale. «Lo conobbi lì e svolgeva funzione nel segretariato, lui già era alle dipendenze della presidenza, siccome io constatai la sua professionalità, tra virgolette, era dei più anziani, nella gestione del servizio di commesso di sala(…)Rispetto a questo- chiosa Nicolò- io feci anche una valutazione, lui aveva maggiore esperienza, perché avevo constatato già la sua attività con il... nell’ufficio... negli uffici di presidenza, alle dipendenze... era quello che portava il gonfalone, quello che faceva il... Intanto Repaci è un dipendente regionale, non è una scelta della politica, me lo sono ritrovato là». Al gip questa ricostruzione non quadra e gli chiede come mai Repaci fosse il punto di riferimento di molti personaggi che avevano necessità, a vario titolo, di interfacciarsi con lui. Anche in questo caso Nicolò respinge l’addebito : «Io? Repaci non mi ha mai portato persone o personaggi di un certo tipo». Il politico quindi ribadisce che l’uomo «era un soggetto dipendente del Consiglio Regionale, che ha vinto un concorso, che per vincere un concorso doveva avere... e faceva parte dell’ufficio di Presidenza, quando è venuto da me non aveva nessun rapporto, credetemi (…)se avessi saputo che Repaci aveva un rapporto, tranquillamente non sarebbe stato nella mia segreteria.», dirà ai magistrati così come riferirà di averlo allontanato dopo l’esecuzione del blitz in cui figlia e genero sono stati arrestati e un suo coinvolgimento in una vicenda giudiziaria. «”Ma io sono stato prosciolto”, gli avrebbe detto, ma Nicolò ha riferito di aver risposto così: «ve lo giuro sui miei figli, dico: “Tu non puoi venire...” parlò con me, non con la segreteria, “non puoi venire più”, perché non è che sei stato prosciolto da un reato tuo singolo, sei stato prosciolto dove ci sono situazioni che si riconducono all’etica e io non ti posso prendere più”... ha insistito più volte con il capo struttura pure, con Palamara, chiedendo di intercedere su di me perché io lo potessi riprendere. “Io sono il più anziano, il più preparato - disse lui - io non ho rapporti con mia figlia, io non ho rapporti” disse lui, cercò di intercedere con... per persuadermi, e non ci riuscì perché io fui categorico: non può più tornare».
«Tortorella era solo il mio dentista»
E se Nicolò è finito dietro le sbarre è anche per le numerose intercettazioni captate nello studio del presunto dentista della ‘ndrangheta Giuseppe Demetrio Tortorella il quale dirà chiaramente: «ricordati che abbiamo a Nicolò, una cosa nostra nostra, voglio dire, io le lo dico a te Franco per dirti è una cosa nostra cioè non è .. è come a noi va..». Un’intercettazione “chiave” per l’accusa che comproverebbe l’appartenenza di Nicolò alla cosca e il sostegno elettorale dato in occasione delle elezioni del 2014. «Io andavo solo per questioni dei denti, era il mio dentista. Poi non ci andai più. Per un lavoro non fatto bene. Da subito, per un lavoro non fatto bene, mi è saltato...Io non so se... mi creda, in quella fase io ero in cura», spiegherà il politico ai pm che, però gli risponderanno «che i dati intercettivi smentiscono totalmente». Nicolò non riesce a spiegarsi come il dentista possa aver pronunciato determinate affermazioni né di aver mai saputo delle sue frequentazioni con pregiudicati e presunti affiliati alla cosca. Una circostanza la ammette, ossia quella di aver comunque intrattenuto un rapporto meramente politico. Tortorella in passato è stato sia consigliere che assessore comunale ed è in questo contesto che i due si sono conosciuti. «Lo conobbi in consiglio comunale» dirà Nicolò il quale gli chiese sostegno elettorale «ho chiesto a lui se fosse stato disponibile a darmi una mano. Lì lui mi rispose che avrebbe cercato, si sarebbe prodigato. Io capii che lui aveva tanti candidati, aveva tanti... io capii, dico: “Guarda, se puoi darmi una mano...”, questo è il mio rapporto con Tortorella. Ci prendemmo qualche caffè, perché ci sentivamo, ma sempre un ragionamento circoscritto al rapporto tra me e lui».
«Voglio la verità sulla morte di mio padre»
Sono tanti i passaggi dell’interrogatorio in cui si evince che Nicolò è molto provato sia essere stato arrestato che quando parla della morte del padre Pietro, scomparso molto tempo fa, assieme all’amico Giuseppe Morabito, con il metodo della “lupara bianca”: i corpi infatti, non vennero mai ritrovati e- stando alle risultanze dell’inchiesta “Libro Nero” sarebbero stati uccisi per volere del boss don Mico Libri. Tortorella intercettato dirà brutalmente “questo(riferendosi a Nicolò ndr) ha vinto con i voti di quelli che gli hanno sotterrato a suo padre». I magistrati gli chiedono spiegazioni e Nicolò dirà «smentisco categoricamente il Tortorella». «Com’è possibile che Tortorella dica una cosa del genere? Lei come la giustifica?», gli contestano ai pm. Nicolò risponde: «chiedetelo a lui, io dissento». C’è un’altra circostanza poi, che i pm vogliono analizzare ossia la pura per la cosca di un possibile “pentimento” Domenico Venturà, già condannato per l’omicidio di Marco Puntorieri. «Se Ventura si butta pentito, escono fuori tante cose», dicono i conversanti. “Eh, in quel pezzo non resta nessuno, capisci? Sì, in quel pezzo non resta nessuno perché esce fuori, eh, Morabito esce fuori, tutto, tutto, tutto, certo, finisce Sandro, tutto”, Sartiano: “Finisce pure Sandro”, Tortorella: “Certo, una volta che esce fuori un fatto di quelli, che lui l’ha ammazzato per Mico Libri”. Per queste frasi i magistrati vogliono spiegazioni soprattutto sul che cosa intendono per « finisce pure Sandro». Nicolò alza le mani e risponde «Non lo so cosa». Ed ecco che inizia a parlare del padre scomparso. «Io sono sempre stato in contatto con i Carabinieri di Cannavò per... posso parlare perché è una cosa che ha sconvolto la mia vita e quella della mia famiglia, dell’assenza, della scomparsa di mio papà, che risale al 2004. Mio papà si accompagnava quella sera con con Morabito la cui moglie gli dava una mano nel giardinetto, perché papà dopo essere andato in pensione si ritrovò a curare un giardinetto ereditato da suo padre, quindi si dedicò all’agricoltura diciamo. Mio padre... questa per me è una cosa molto dolorosa, io ancora oggi non so dove si trova, io ho chiesto al Comandante Diamante, con il quale sono stato sempre in contatto, di sapere e di volere la verità, la verità che mi consentirebbe di costituirmi parte civile con chi ha effettuato, così come dalle cronache... ma non so chi».
«Alle Agavi non ricordo di esserci andato»
Uno dei principali “accusatori” di Nicolò è Enrico De Rosa, ex agente immobiliare legato mani e piedi sia con la cosca Caridi che con i Zindato, famiglie entrambe egemoni nella zona sud della città. De Rosa racconterà ai pm di aver partecipato ad una cena elettorale alla presenza di Nicolò, ma anche di altri personaggi tra cui gli imprenditori Francesco e Demetrio Berna anche loro coinvolti nell’inchiesta, all’agriturismo le “Agavi” di Saline Joniche. «Sembrava un summit (di ‘ndrangheta, ndr), non sembrava una riunione elettorale», dirà il collaboratore di giustizia ai magistrati. Nicolò, però affermerà «no, assolutamente», riferendosi al presunto summit mafioso e aggiungerà che De Rosa lo ha incontrato solo due volte «alla luce del sole» e di non ricordare «di essere stato qui(…)io questo posto non lo ricordo. Mentre su Demetrio Berna, già consigliere comunale assessore al bilancio al Comune di Reggio Calabria, indicato dalla Procura con il ruolo di «trait d’union» con la ‘ndrangheta, Nicolò parlerà di soli rapporti politici senza alcun tipo di favoritismo. «É di carattere strettamente politico, divenne Assessore, ricordo, assunse anche la delega alle Finanze e si contraddistinse, questo a nostro giudizio, per l’impegno all’interno delle istituzioni (…)fece degli incontri in città, mi fece un party, adesso mi ricordo...», ma poi tra i due i rapporti nel 2014 si sarebbero interrotti. «L’ho visto distaccato. Seppi dopo i suoi movimenti, capii che non votava, capii, lo vidi disinteressato, ma lui si disinteressava al partito». Alla precedente tornata elettorale, però ha affermato di averlo sostenuto insieme ad Antonio Pizzimenti: «Pizzimenti e Berna, sì».
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