C’è l’atmosfera delle grandi occasioni, questa mattina, nell’aula 13 del Cedir. Perché in fondo quel che si attende per così tanto tempo è davvero un’occasione unica. Quasi irripetibile. Quella di poter accertare, una volta per tutte, quale sia stata la verità su uno dei fatti più cruenti degli ultimi 30 anni e su una intera stagione di terrore vissuta in riva allo Stretto, da una collettività per molto tempo inconsapevole.

 

Gli imputati, i pentiti e i familiari

Ci sono gli imputati: uno, Giuseppe Graviano, boss riconosciuto di Cosa Nostra, collegato in video conferenza dal carcere di Terni; l’altro, Rocco Santo Filippone, uomo sfuggito per una vita alle maglie della giustizia. Da uomo quasi “immacolato”, fa il suo ingresso nell’olimpo del crimine, grazie alle dichiarazioni di collaboratori di giustizia che lo indicano come il mandante dell’omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, due servitori dello Stato trucidati dai proiettili delle armi impugnate da Consolato Villani e Giuseppe Calabrò. Entrambi condannati in via definitiva quali esecutori del delitto, ma con motivazioni assai differenti da quelle che da questa mattina si disquisiscono all’interno dell’aula della Corte d’Assise di Reggio Calabria. Nel frattempo, Consolato Villani ha intrapreso un percorso di collaborazione con la giustizia, mentre Giuseppe Calabrò perpetua quel suo “dire e non dire” che lo ha accompagnato nel corso degli anni, da quando – pentito per qualche tempo – fece dei nomi poi rivelatisi totalmente infondati. Fino all’interrogatorio di qualche tempo addietro, quando, in lacrime e fuori di sé per il terrore, confermò ai magistrati che sì, quei carabinieri furono uccisi perché così doveva essere, secondo un preciso ordine che arrivò da un accordo con i siciliani.

E nell’aula del centro direzionale si respira tutta quest’aria di grande attesa. Da una parte ci sono i familiari dell’imputato Filippone, sopraggiunti in gran numero per vedere il loro congiunto. Ma dall’altra ci sono loro, i familiari dei carabinieri Fava e Garofalo, ossia le persone che più di tutte le altre hanno dovuto pagare il salatissimo conto presentato dalla vita: sono madri e mogli, figli e figlie. Tutti cresciuti per oltre 20 anni con il tarlo di una verità che faticava ad emergere davvero. I loro occhi lucidi sembrano quasi alternarsi con quello sguardo di serenità che solo chi non ha più molto da perdere può possedere. Una serenità che non significa afflizione, né cedimento. Anzi, proprio mentre l’udienza deve iniziare, parlare con loro vuol dire fare un’iniezione di forza di volontà, di animo nobile tanto quanto quello di coloro che sono caduti nell’adempimento di un dovere.

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Il processo

È il presidente Ornella Pastore a guidare la Corte d’Assise di Reggio Calabria. Una garanzia riconosciuta di efficienza e intransigenza. Un giudice attento, scrupoloso, ma soprattutto mai prevenuto e sempre pronto all’ascolto. Scelta azzeccata per un processo tanto complesso.

Le questioni preliminari portano via buona parte della mattinata. Dopo un primo scambio di battute, ecco arrivare il momento delle parti civili. Sono diverse, numerose. C’è la Regione Calabria, c’è il Comune di Reggio Calabria, così come quelli di Melicucco e Rosarno. E poi ci sono loro: i parenti delle vittime e le vittime stesse dei tentati omicidi. Tutti ammessi. Indistintamente. Poi le ore scivolano via sull’onda delle eccezioni della difesa. Tocca all’avvocato Aloisio iniziare eccependo la nullità del decreto che dispone il giudizio immediato. Secondo il legale, l’interrogatorio cui è stato sottoposto Giuseppe Graviano non è stato completo. Al suo assistito non sono stati contestati tutti i capi d’accusa e, per tale ragione, tutto sarebbe da rifare.

 

Una visione cui si associa anche l’avvocato difensore di Filippone, Guido Contestabile, che pone anche un ulteriore passaggio: se proprio la lettera della norma è da ritenersi integrata, allora in subordine va eccepita l’incostituzionalità della norma stessa nella parte in cui comprime i diritti di difesa degli imputati. Ribatte il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. Lui, che avrebbe anche potuto affidare il processo ad un sostituto, decide che è giusto esserci in aula. Dalla prima udienza. Un segnale non indifferente per imputati e non. La Procura di Reggio Calabria mette in campo i pezzi da novanta, senza attendere il momento della requisitoria. Replica, il procuratore, spiegando che tutto – a suo avviso – si è svolto secondo le normali regole processuali. Che un interrogatorio vi è stato e che, se mai vi fosse stata una violazione delle norme, essa avrebbe dovuto avere effetto immediato con la caducazione del titolo custodiale nei confronti di Graviano. Cosa che, però, non si è verificata, così sancendo la bontà della procedura seguita.

 

Arriva Antonio Ingroia

Alla posizione del procuratore, si associa anche un ex magistrato, oggi avvocato di parte civile. È Antonio Ingroia, uno che di rapporti fra mafie e Stato se ne intende abbastanza. Difende diversi parenti delle vittime, Ingroia, fra cui Ivana Fava, la giovane figlia dell’appuntato Fava, presente questa mattina in Tribunale, così come lo fu il 26 luglio scorso nella questura reggina, quando le istituzioni diedero notizia dell’arresto di Filippone e della misura per Graviano. Anche i suoi occhi hanno una luce particolare: trasudano voglia di verità. Da qui la scelta di affidarsi ad un avvocato “particolare” come Antonio Ingroia, abituato a non accontentarsi di depositare qualche atto quale parte civile, ma di andare a fondo.

La decisione della corte e l’avvio dell’istruttoria

Si ritira per oltre mezz’ora, la Corte presieduta da Ornella Pastore. C’è da dirimere la questione giuridica posta dalle difese. Poi, ecco la decisione: accolte le tesi dell’accusa e delle parti civili. Il processo può andare avanti. Già a partire dalla prossima udienza, prevista per il 13 novembre, ci saranno i primi testi di polizia giudiziaria. Poi arriverà il tempo dei collaboratori di giustizia e sarà molto interessante ascoltare ciò che avranno da dire, tanto i calabresi, quanto i siciliani. Non è escluso che questo dibattimento possa essere un momento in cui raccogliere elementi utili ben al di là del procedimento stesso. Tuttavia, questa mattina, la sensazione di trovarsi lì, ad un passo da una storia ancora da scrivere, si coglieva a piene mani. Toccherà al processo, ora, stabilire quale sarà il finale.

 

I familiari: «Chi ha sbagliato paghi»

Intanto, i familiari delle vittime, a margine dell’udienza, parlano in maniera unanime: «Siamo qui per avere giustizia, anche se sappiamo bene che nessuno potrà restituirci ciò che ci è stato tolto. Però chi ha sbagliato deve pagare. Non ci speravamo quasi più di poter arrivare a questo processo. Lo dobbiamo alla tenacia dei pubblici ministeri che non hanno smesso mai di indagare per arrivare alla verità».

Consolato Minniti