La relazione semestrale della Dia conferma l’evoluzione dell’organizzazione criminale calabrese che consolida il suo dominio nel traffico internazionale di droga. I social facilitano l’ingresso delle nuove leve, ma resistono i rituali di affiliazione
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La ‘ndrangheta «mantiene intatta la propria supremazia nel traffico degli stupefacenti, non solo a livello nazionale, interloquendo direttamente con i più agguerriti ‘cartelli’ della droga del mondo». Lo evidenzia l’ultima relazione della Dia (primo semestre 2018) consegnata al Parlamento. Le evidenze investigative, rileva la Dia, «continuano a dar conto della sussistenza dei riti di affiliazione, che non costituiscono mai né un retaggio del passato né una nota di colore, in quanto tuttora necessari per definire appartenenza e gerarchie interne, per rafforzare il senso di identità e per dare ‘riconoscibilità’ all’esterno, anche in contesti extraregionali e persino internazionali».
Sul fronte imprenditoriale la ‘ndrangheta appare proiettata «verso ambiti delinquenziali sempre più raffinati», che contaminano l’economia legale con il monopolio di interi settori, da quello edilizio, a quello immobiliare o delle concessioni dei giochi. Le infiltrazioni delle ‘ndrine sono consistenti nel Nord Italia dove viene replicato il modello organizzativo, come all’estero, dove sono presenti proiezioni operative in Germania, Svizzera, Spagna, Francia, Olanda e nell’Est Europa, nonché nei continenti americano (specie in Canada) ed australiano. Si tratta, nota la relazione, si una «strategia espansionistica finalizzata innanzitutto a riciclare e reimpiegare i capitali illeciti, utilizzando tecniche di occultamento sempre più sofisticate, frutto principalmente del traffico internazionale di stupefacenti e delle estorsioni».
Se da una parte si assiste ad un’evoluzione sempre più accentuata delle mafie italiane che agiscono anche nelle city delle grandi capitali europee, dall’altra, la criminalità organizzata trae la “linfa vitale” necessaria a rigenerarsi «in soggetti sempre più giovani, impiegati in professioni poco qualificate o senza occupazione». La relazione della Direzione investigativa antimafia, infatti, evidenzi che, se da un lato le organizzazioni investono sempre di più su «imprenditori e liberi professionisti», dall'altro puntano ad arruolare «operai comuni» e soggetti «in attesa di occupazione» nella fascia più giovane, quella tra i 18 e i 40 anni.
Nell'analizzare il fenomeno la Dia sottolinea come le mafie, nonostante «la forte azione repressiva dello Stato», continuino ad avere una capacità attrattiva sulle giovani generazioni, non solo nel caso di figli di boss o di ragazzi provenienti da famiglie mafiose ma anche e soprattutto quando queste fanno parte di un bacino molto più grande di “reclutamento generale” dal quale attingere manovalanza criminale. Un bacino che continua a essere alimentato dalle difficili condizioni sociali del sud: il reclutamento, dice infatti la Dia, «non appare certamente disgiunto da una crisi sociale diffusa che non sembra offrire ai giovani valide alternative per una emancipazione dalla cultura mafiosa».
In sostanza, le mafie riducono «sensibilmente l'iniziativa imprenditoriale lecita, approfittano dello stato di bisogno di molti giovani e speculano sulla manodopera locale, dando l'effimera sensazione di distribuire un salario (sempre minimo per generare dipendenza e senza garantire i contributi previdenziali e quindi un futuro) ai giovani impiegati al suo servizio perché privi di alternative».
Concetti che i numeri esplicitano in maniera ancora più chiara: negli ultimi cinque anni non solo si sono registrati casi di 'mafiosi' con un'età tra i 14 e i 18 anni, ma gli appartenenti alle cosche tra i 18 e i 40 anni hanno raggiunto numeri quasi uguali a quelli della fascia tra i 40 e i 65 anni e, in un caso, lo hanno anche superato (nel 2015 i denunciati e gli arrestati per 416 bis sono stati 5.437 di cui 2.792 tra i 18 e i 40 anni e 2.654 tra i 45 e i 60). Tutte le indagini degli ultimi anni, spiegano gli investigatori, accanto ad una modernizzazione delle strategie criminali delle cosche, evidenziano non a caso «anche un sensibile abbassamento dell'età di iniziazione mafiosa». E portano alla luce anche un'altra serie di elementi su cui è necessario riflettere: la volontà delle nuove generazioni di affrancarsi dai vecchi boss, l'uso indiscriminato della violenza, l'ambizione di avere il giusto riconoscimento e di fare 'carriera' all'interno delle organizzazioni.
«Una trasformazione della cultura mafiosa - dice la Dia - che investe anche il linguaggio, al passo con i tempi. Non tanto rispetto ai contenuti delle comunicazioni, sempre criptiche, imperative e cariche di violenza, quanto piuttosto per gli strumenti social utilizzati, che consentono di aggregare velocemente gli affiliati al sodalizio e, allo stesso tempo, di rendere più difficoltosa l'intercettazione dei messaggi».