Nel carcere di Nuoro, attualmente a contagi zero, non c’è alcun rischio legato al Covid-19, il suo stato di salute è perfettamente compatibile con la detenzione e non è cambiato il quadro che lo ha portato dietro le sbarre. L’avvocato Giancarlo Pittelli, in carcere dal dicembre scorso come riservato a disposizione del clan Mancuso, dovrà rimanere in cella e dovrà anche pagare le spese del procedimento, perché l’appello cautelare presentato dai suoi legali è intempestivo e infondato.

Il riservato dei Mancuso

Noto penalista e politico di lungo corso, “riservato” del boss Luigi Mancuso, Pittelli dal dicembre scorso è in carcere per – secondo gli inquirenti – essersi messo totalmente al servizio del clan, cui ha procurato affari, servizi e segreti. Ai Mancuso, per i magistrati della Dda di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri, il noto penalista ha messo a disposizione «il proprio rilevante patrimonio di conoscenze e di rapporti privilegiati con esponenti di primo piano a livello politico-istituzionale, del mondo imprenditoriale e delle professioni, anche per acquisire informazioni coperte dal segreto d’ufficio e per garantirne lo sviluppo nel settore». Per questo, ha deciso il gip all’epoca e confermato il Tdl poi, deve stare in carcere.

E lo stesso ha confermato un’altra sezione del Riesame, interrogata con un doppio appello cautelare.

Due istanze, due naufragi

Così hanno deciso i giudici di Catanzaro, respingendo al mittente le istanze con cui gli avvocati Contestabile e Staiano hanno cercato di strappare per Pittelli i domiciliari con braccialetto elettronico tanto contestando l’impianto accusatorio, come facendo leva sull’emergenza coronavirus. Strategie naufragate e liquidate con due provvedimenti durissimi, che lasciano poco margine all’interpretazione. A partire dal millantato rischio Covid, che da inizio aprile ha permesso a più di un boss di passare ai domiciliari perché statisticamente a rischio contagio.

Nessun rischio Covid19 a Nuoro

Sirene che non hanno influenzato il Tribunale di Catanzaro, che a Pittelli e ai suoi legali, preoccupati di una potenziale esposizione al contagio, ha risposto con elementi molto concreti. Primo, il carcere di Nuoro in cui Pittelli è detenuto è Covid free. Lì nessun contagio è stato registrato. Argomento che già da solo basterebbe a chiudere il discorso, ma i giudici vanno oltre, contestando punto per punto le argomentazioni dei legali.

Non basta un ricovero datato per lasciare il carcere

Che Pittelli abbia 67 anni, sia sottoposto a terapia farmacologica e fumatore incallito non lo rende maggiormente esposto al contagio (che per altro a Nuoro non c’è), tanto meno incompatibile con la detenzione. E a nulla serve una cartella clinica che attesta due giorni di ricovero nel 2018, anche perché dopo quella degenza non c’è «evidenza di ulteriori problematiche analoghe indicative di una condizione patologica definita, duratura e attuale».

Il carcere in tempi di Covid19 non è trattamento degradante

Ma soprattutto il Riesame affronta e scioglie un nodo al centro di molte delle istanze che oggi stanno arrivando di fronte a giudici di ogni ordine e grado per permettere ai detenuti, inclusi quelli accusati di reati di mafia, di strappare i domiciliari. Secondo i legali – si legge nel provvedimento – anche solo la paura del contagio inciderebbe sulle condizioni psicologiche di chi sta in carcere dunque «la condizione detentiva, nell'attuale situazione epidemiologica, dovrebbe considerarsi quale "trattamento inumano e degradante"». Valutazioni astratte – un modo garbato di dire «fuffa» - per i giudici. Anche perché la perizia psichiatrica arrivata dal carcere attesta «il miglioramento delle condizioni cliniche» di Pittelli, per questo passato dal regime di sorveglianza a vista a quello di attenta vigilanza.

Carcere unico mezzo per azzerare il capitale sociale criminale di Pittelli

Insomma, per i giudici di Catanzaro Pittelli è tutto fuorché un detenuto prostrato dal terrore del contagio, e solo il carcere permette «recidere i legami e le relazioni che ha mostrato di saper intrattenere, con soggetti, anche particolarmente qualificati, da cui ha potuto acquisire informazioni relative al presente procedimento, poi riportate ai vertici della 'ndrangheta vibonese in cambio di favori personali ed altre utilità, nell'ambito di un accordo sinallagmatico ben inquadrato, sul piano della qualificazione giuridica, nella condotta di concorso esterno».

Roma non vale una scarcerazione

Per questo, poco importa che i legali suggeriscano Roma come possibile sede di detenzione domiciliare. Primo, perché molti dei reati contestati secondo l’accusa sarebbero stati commessi fuori dalla Calabria, anzi proprio nella Capitale, dove il legale è stato pizzicato anche a cena con il boss Mancuso. E poi, proprio a Roma, Pittelli «ha mostrato di intrattenere relazioni privilegiate con importanti personalità (anche appartenenti alla loggia massonica romana), di cui l'odierno indagato si è in alcune occasioni avvalso per favorire gli interessi dell'associazione di 'ndrangheta, oltre che dei suoi soggetti di vertice».

E il braccialetto elettronico non basta

Considerato vero crocevia di interessi massonici, mafiosi, imprenditoriali e finanziari, Pittelli fuori dal carcere – sostengono i giudici – non avrebbe difficoltà a riattivare quella rete di rapporti, relazioni e contatti che è sempre stata il suo “capitale sociale”. E anche il braccialetto elettronico non sarebbe un deterrente sufficiente, anche alla luce della ramificata rete di relazioni, che non necessitano di incontri per rimanere solide e strutturate. Rapporti, segnalava già all’epoca il gip, «a tutti i livelli (con esponenti delle Forze dell'Ordine, dei servizi segreti, delle cancellerie dei vari Tribunali, di alte personalità e via discorrendo)» a cui fuori dal carcere «l'indagato potrebbe agevolmente appigliarsi, nella particolare vicenda umana che lo vede coinvolto, a favore di se stesso». Parole «pienamente condivisibili» per i giudici del Riesame, che per questo poco o nessun valore hanno dato alla sospensione – sostenuta dai legali, senza neanche uno straccio di provvedimento a riprova – di Pittelli dall’Ordine degli avvocati.

Non solo reati con la toga addosso

I reati che gli vengono contestati non li ha certo commessi solo con la toga addosso. Anzi, si legge nel provvedimento, è «emerso in modo chiaro che egli abbia assecondato gli interessi della 'ndrangheta vibonese avvalendosi di conoscenze e coltivando relazioni acquisite nella propria qualità di soggetto influente ed ex parlamentare, ben inserito in ambienti istituzionali e dell'alta società, nei quali ha potuto veicolare istanze riconducibili agli interessi della criminalità organizzata (e a quelli personali dei suoi capi), operando, dunque, al di fuori dell'ambito strettamente legale».

Niente confusione sul pentimento di Mantella

Ugualmente a poco o nulla servono gli articoli di stampa che dimostrano come l’inizio della collaborazione con la giustizia del pentito Mantella fosse di dominio pubblico. Anche perché – si ricorda nel provvedimento – quel che si contesta a Pittelli non è di aver svelato “il pentimento” di Mantella, ma di aver «rivelato i contenuti degli interrogatori da lui resi ai soggetti apicali della 'ndrangheta vibonese chiamati in correità dal collaboratore».

La fretta dei legali

In più – affermano i giudici – gli avvocati hanno avuto assai fretta. Ancor prima che venissero depositate le motivazioni della sentenza con cui il Riesame ha confermato l’ordinanza di custodia cautelare, hanno presentato ricorso per Cassazione, per poi riciclare i medesimi argomenti anche nell’appello cautelare. Morale? Il Tribunale del Riesame non può certo intervenire a gamba tesa su argomenti che la Suprema Corte è già stata chiamata a valutare, dovendosi dunque limitare a considerare gli elementi nuovi o ulteriori. Traduzione, la disponibilità di un appartamento romano per i domiciliari, la sospensione di Pittelli dall’Ordine e due articoli che danno conto dell’inizio della collaborazione del pentito Andrea Mantella. Poco, troppo poco per i giudici. Pittelli deve restare in carcere e neanche il Covid19 è motivazione sufficiente per mandarlo ai domiciliari.