Sconto di pena in Appello per Gianni Remo, imprenditore reggino arrivo nel settore di vendita delle carni e della ristorazione nonché ex vicepresidente della Reggina calcio. La seconda sezione della Corte d’Appello, presieduta da Olga Tarzia, ha riformato la sentenza di primo grado infliggendo 7 anni di carcere rispetto ai 15 anni rimediati nel settembre del 2016 dal Tribunale reggino. L’imputato, difeso dall’avvocato Tonino Curatola, è stato condannato per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa mentre è stato assolto dagli altri due capi di imputazione ossia estorsione e concorrenza sleale, reati  entrambi aggravati dalle modalità mafiose. Stessa decisione dei giudici anche per il fratello Pasquale, difeso dai legali Francesco Albanese e Francesco Calabrese. Anche lui era stato condannato a 15 anni e adesso punito a 7 anni di reclusione. Passa invece da una condanna a 22 anni di carcere a solo un anno di detenzione il boss Michele Labate, ritenuto ai vertici dell'omonimo clan egemone nel rione Gebbione, alla periferia sud della città. 

 

I giudici di piazza Castello hanno infatti ritenuto la condotta in continuazione con precedenti sentenze rimediate dall’imputato, assistito in questo processo dai legali Francesco Calabrese e Giovanna Araniti. Per tutti e tre la Corte d’Appello ha disposto la scarcerazione.
 
 
Al centro dell’inchiesta del pm antimafia Stefano Musolino c’era  il settore della commercializzazione delle carni nel quale la famiglia Remo aveva grossi interessi che si intrecciano con quelli della cosca Labate, alias “Ti Mangiu”. Per la Dda Gianni Remo avrebbe nel tempo sfruttato i propri rapporti di parentela con la famiglia Labate per imporre la propria volontà, ma anche per ottenere una posizione privilegiata nel mercato reggino. Un’accusa questa oggi cassata dai giudici di secondo grado. 
 
Avvalendosi della forza intimidatrice della ‘ndrangheta, poi il numero 2 della Reggina, secondo l’accusa, avrebbe imposto le sue imprese sul mercato attraverso “estorsioni e attività di concorrenza sleale nei confronti degli altri imprenditori operanti nel settore della macellazione”. Gli emissari della cosca avrebbero “minacciato la clientela, affinché non si rifornisse più presso l’impresa di Umberto Remo”, lo zio con cui erano entrati in contrasto i due fratelli Gianni e Pasquale. Lo scopo per gli inquirenti era indirizzare i clienti  verso le macellerie “riferibili alle comune cosca di ‘ndrangheta ovvero ad imprese gestite da soggetti collusi o contigui”.  
 
Forti del sostegno dei Labate, i due imprenditori  avrebbero costretto lo zio a cedere un capannone industriale a un prezzo inferiore a quello di mercato,  ma tutti questi capi di imputazione non hannoretto al vaglio dei giudici d’Appello che però, lo hanno condannato quale soggetti assai vicino ai Labate e concorrenti negli interessi illeciti della cosca.