Sono morti dimenticati, cold case persi negli archivi delle Procure. Riportano le lancette del tempo all’epoca in cui la ’ndrangheta veniva concepita come una mafia stracciona, malgrado avesse già infettato il Centro ed il Nord Italia, riciclato gran parte dei proventi dell’Anonima sequestri e scalzato Cosa nostra come partner dei cartelli sudamericani lungo le rotte del narcotraffico internazionale.

Sono gli anni ’80 e ’90, quando in Sicilia s’ammazzavano i simboli dello Stato e ciò quasi non faceva rumore: figurarsi quanto poteva valere in Calabria un bracciante con precedenti per abigeato fatto sparire nelle campagne o un nullafacente con pregiudizi per furto lasciato bruciare nella sua auto dopo essere stato crivellato a colpi d’arma da fuoco.

Le memorie di Mantella

Andrea Mantella, davanti ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro ed ai carabinieri, confessa sì gli omicidi che ha materialmente eseguito o che ha ordinato, ma racconta anche questa epoca nella quale, appena adolescente, iniziò a farsi le ossa nel crimine organizzato. Poi, più avanti, quando conobbe il carcere, imponendosi e facendosi rispettare, fuori e dentro le celle, apprese da altri uomini d’onore i particolari di quelle vicende che hanno ridisegnato la ’ndrangheta vibonese per come la conosciamo oggi: padrona di un territorio che ha registrato il maggior numero di omicidi in Italia in rapporto alla popolazione residente, leader nei traffici internazionali di cocaina, capace di intrecciare rapporti privilegiati con le alte sfere della massoneria deviata e dei “sussurrati all’orecchio”.

È il 9 giugno del 2016, carcere di Rebibbia. Andrea Mantella viene interrogato da Camillo Falvo, oggi procuratore capo di Vibo Valentia, allora pm antimafia di Catanzaro, incaricato da Nicola Gratteri (in basso, in foto) di portare avanti quella che sarebbe divenuta un’indagine epocale: “Rinascita Scott”. Mantella racconta una sequela impressionante di fatti di sangue: omicidi, lupare bianche, tentati omicidi. Ed apre uno squarcio di luce su una faida rimasta inviolata perfino dalle cronache giornalistiche, quella per il dominio del Poro, che avrebbe contrapposto, da allora e fino ai giorni nostri, i Soriano di Filandari e gli Accorinti di Zungri. Clan coprotagonisti: i Fiaré-Razionale di San Gregorio d’Ippona e, soprattutto, i Mancuso di Limbadi.


LEGGI ANCHE: Rinascita Scott, il pentito: «Ecco chi uccise Filippo Piccione 26 anni fa»

Passo indietro: la strage di Pizzinni

Per contestualizzare il racconto di Mantella è necessario fare un passo indietro e risalire fino al 24 ottobre del 1982, quando si consumò l’evento più atroce nella storia del crimine vibonese, la strage di Pizzinni costata la vita a due bambini, i fratelli Antonio e Bartolo Pesce. Un tubo in ferro con quasi un chilo di gelatina esplosiva fu sistemato vicino casa di Giuseppe Soriano, i cui giovani figli avevano pestato i piedi sbagliati, quelli dei Mancuso e – dirà il collaboratore di giustizia Angiolino Servello, vent’anni dopo, confessando di aver sistemato lui assieme ad un complice quell’ordigno – quelli di un imprenditore legato ai padrini di Limbadi. La bomba doveva fare strage della famiglia Soriano, ma pagarono due innocenti, i bambini usciti in strada, in quel momento, a giocare.

Allora, però, gli inquirenti indagarono nella direzione indicata da Leone Soriano, che in futuro sarebbe divenuto il “capo” della famiglia. Il giovane Leone accusò alcuni pregiudicati di San Gregorio d’Ippona, legati al clan Fiaré-Razionale, che avrebbero agito su mandato dei Mancuso e che avrebbero ritenuto suo fratello Carmelo responsabile di alcuni furti. Sottoposti a processo, furono tutti assolti per la strage, la cui verità, raccontata poi dal pentito re-confesso, a quasi quarant’anni da quella ignobile carneficina non ha mai avuto uno sviluppo investigativo e processuale.

LEGGI ANCHE: La strage di Pizzinni e le ammissioni di Leone Soriano ad Andrea Mantella

L’omicidio di Giasone Castagna

Davanti alla bomba– ricordano i rapporti dell’epoca – lo stesso Leone Soriano giurò vendetta. Il primo a cadere fu Giasone Castagna, ucciso il 3 giugno del 1983 a Ionadi. Era considerato un «affiliato ai Mancuso». I fratelli Domenico, Carmelo e Leone Soriano, dopo quell’omicidio, si diedero alla macchia assieme ad un loro sodale. Furono denunciati dai carabinieri per quel delitto, ma le dichiarazioni rese agli investigatori da un congiunto della vittima, testimone oculare del fatto di sangue, che descrisse con meticolosità non solo l’esecuzione ma anche il movente, non bastarono ad inchiodare i sopravvissuti di Pizzinni.

Guerrera, Cichello e i due Castagna

In un clima di tensione strisciante, si arriva così al 1991, quando un piccolo criminale della zona, Domenico Cichello, fu aggredito dai Soriano e si rivolse agli Accorinti di Zungri per trovare appoggio e protezione. Non bastò, ciò, allo stesso Cichello per scongiurare una vendetta: anzi, il 21 ottobre 1991, ad Arzona di Filandari, scampò ad un agguato consumato a colpi di pistola. Seguì una lunga serie di intimidazioni, fino al 3 novembre 1992, quando fu uno dei fratelli Soriano, Gaetano, a divenire il bersaglio di un attentato: egli rimase ferito, mentre il suo sodale, Giuseppe Guerrera, morì a causa della gravità delle ferite riportate.

Due anni di silenzio e poi, il 27 gennaio 1995, un altro cadavere: quello, stavolta carbonizzato, di Francesco Cichello, ritrovato nella discarica comunale di Ionadi. Il 20 giugno 1995, invece, i Soriano avrebbero trucidato due uomini loro affiliati, accusati di tradimento: Domenico e Nicola Castagna.

Il duplice delitto spartiacque

Il 6 agosto 1996 l’episodio chiave, lo spartiacque tra gli anni ’80 e ’90 e i giorni nostri, l’oggetto principale del racconto dell’ex padrino pentito Andrea Mantella: l’omicidio di Antonio Lo Giudice e la contestuale scomparsa per lupara bianca di Roberto Soriano, che avevano trascorso insieme le loro ultime ore. Questo episodio fu preceduto, neppure un mese prima, da un tentativo d’omicidio eccellente: in piazza De Gasperi, a Zungri, qualcuno sparò al boss Peppone Accorinti, da sempre inviso ai Soriano, che uscì illeso, e a Nicola Castagna, che invece rimase gravemente ferito.

I bersagli di Peppe Mancuso

Mantella, l’ex killer divenuto padrino e poi collaboratore di giustizia, racconta dei segreti confidatigli da Saverio Razionale (in foto), un pezzo da novanta della criminalità organizzata vibonese, spietato, ma anche ricco e potente, capace di costruirsi un piccolo impero tra la sua San Gregorio d’Ippona e Roma: «Mi disse – svela il superpentito alla Dda di Catanzaro – che “Peppe Mbrogghjia” (Giuseppe Mancuso, nda), gli aveva chiesto di dargli la testa di Peppone Accorinti e di farlo sparire di lupara bianca».

Il boss di Limbadi, però, oltre Accorinti avrebbe avuto in animo di fare sparire non solo l’altro boss del Poro, ovvero, Raffaele Fiamingo, poi ucciso in un agguato a Spilinga nel luglio del 2003, ma anche di assassinare lo stesso Razionale. Anzi, spiega Mantella, proprio Mancuso incaricò «Giuseppe Cirianni e Roberto Soriano di sparare a Saverio Razionale e Pino Fiorillo, padre di Michele “Zarrillo”, a Briatico dove Razionale stava realizzando in quel periodo la villa». E ancora: «In quel periodo rubarono la macchina alla compagna di Antonio Lo Giudice, uomo d’onore di Piscopio, che faceva l’infermiera all’ospizio di Rione Carmine».

Lo Giudice, visto che specializzati nei furti d’auto, all’epoca, erano i Soriano, ai Soriano si rivolse e, in particolare a Roberto. Ma Roberto Soriano di quella macchina non sapeva nulla e, così, si offrì – spiega sempre Mantella – di accompagnare Lo Giudice dal boss degli Accorinti di Zungri, Peppone, che nel frattempo però era stato informato dallo stesso Razionale che Giuseppe Mancuso lo voleva eliminare e che era stato proprio Roberto Soriano a sparargli.

Il tranello a Lo Giudice e Soriano

Dal verbale di Andrea Mantella: «Peppone tese un tranello ai due, Lo Giudice e Soriano, dicendo loro di tornare dopo un paio di giorni perché intanto avrebbe cercato di trovare la macchina rubata. Invece di fare ciò avvisò Saverio Razionale». Fu così che Lo Giudice e Soriano, due giorni dopo, in un casolare, si sarebbero trovati di fronte Accorinti e Razionale e altri uomini. E qui inizia una narrazione raccapricciante: «Giunti al casolare, fu detto subito a Lo Giudice di andarsene perché la cosa non lo riguardava ma, per come mi dissero sia Razionale al carcere di Paola che Accorinti al carcere di Cosenza, lui non se ne volle andare, dicendo che Soriano era un bravo ragazzo».

Lo Giudice non abbandonò l’amico

Così Andrea Mantella spiega che Antonio Lo Giudice fu ucciso perché non volle abbandonare l’amico al suo destino: «Non mi è stato detto se Antonio Lo Giudice è stato sparato o strangolato, ma so che è stato ucciso sulla sedia e Accorinti mi disse che era morto con il sorriso sulle labbra». Fu una morte rapida, diversamente da quella di Roberto Soriano. Apprese, il collaboratore di giustizia, che prima di essere ucciso fu torturato usando una tenaglia di quelle per tagliare le unghie alle vacche». Lo interrogarono affinché confessasse la sua responsabilità per gli agguati orditi contro gli stessi Accorinti e Razionale, su ordine di Peppe Mancuso: «Alla fine confessò… E mentre lo torturavano li pregava di ucciderlo».

Carlo e Antonio Castagna

I Soriano avrebbero – secondo Mantella – da sempre meditato di assassinare i boss di Zungri e San Gregorio d’Ippona: «I fratelli o cugini Castagna sono quelli poi uccisi e ritrovati bruciati in un’autovettura, credo un’Alfa 75, al Ponte di Ferro, nel territorio del Mesima, vicino al distributore dei Patania. Ho saputo successivamente che loro volevano riappacificarsi con Razionale e Accorinti, tirandosi fuori dalla situazione, ma non sono stati perdonati. Queste però sono voci correnti dell’ambiente criminale, per cui non posso affermare chi li abbia materialmente uccisi». Si tratterebbe dei fratelli Carlo (cognato di Roberto Soriano, peraltro) e Antonio Castagna, entrambi di Rombiolo, rivenuti carbonizzati nella carcassa di un auto il 13 agosto del 1997. Fine analoga a quella di altri due Castagna, uccisi nel 1995.

“Pesci piccoli” e pescecani

“Pesci piccoli” divorati dai pescecani. E il più pescecane tra tutti era Giuseppe Mancuso, “Mbrogghja”, quello che «ti ammazza per niente». Mantella, pertanto, chiude così: «Nonostante Accorinti e Razionale avessero saputo che Mancuso Giuseppe “Mbrogghjia” li voleva uccidere, non hanno mai risposto, né lui è stato mai tradito durante la latitanza. Questo è il paradosso della situazione dei Mancuso, che non sono mai stati toccati da nessuno, nonostante si siano messi contro i gruppi più sanguinari del Vibonese».

 

LEGGI ANCHE: Rinascita Scott, la provincia di Vibo in mano al super boss Luigi Mancuso: il video

Ancora omicidi

La storia della faida sul Poro proseguì negli anni successivi. Il 27 agosto del 1996 fu ucciso Rocco Francesco Pappa, lungo la provinciale Vibo-Triparni. Era considerato un uomo degli Accorinti. Il successivo 2 dicembre, scampò ad un agguato, a Mesiano di Filandari, Nicolino Mazzeo, che era in macchina assieme ad Angelo Pappa, fratello di Rocco. Il 13 agosto 1997, quindi, il ritrovamento dei corpi dei fratelli Castagna. Un altro Castagna, Emilio, non legato da vincoli parentali ai due precedentemente menzionati, fu assassinato il 29 agosto 1997: era un affiliato del boss Peppone Accorinti, per quale i Soriano continuano a nutrire ancora oggi – rivelano gli atti della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro – una sete di sangue ancora insoddisfatta.