Lo schema è ormai consolidato e - secondo le ultime inchieste delle Dda siciliane - avrebbe permesso a Cosa nostra di rialzarsi e riaffacciarsi nel business globale del narcotraffico. La mano tesa dei clan calabresi è stata fondamentale per i mandamenti dell’isola: i contatti con il Sud America sono gestiti dai broker della ’ndrangheta: il ponte (di droga) tra Calabria e Sicilia alimenta traffici e consente lauti guadagni. Nulla di nuovo: gli equilibri sono cambiati e le ’ndrine conducono il gioco, lo dicono (e qualche volta se ne lamentano) i padrini palermitani nelle intercettazioni.

Nel maxi blitz dell’11 febbraio scorso che ha decapitato la cupola dei boss scarcerati a Palermo con 181 arresti e svelato il patto con la ’ndrangheta, i capi siciliani confessano la loro inadeguatezza rispetto ai “colleghi” saliti al potere nel corso degli anni.

Parlando tra di loro al telefono o in ambienti monitorati dalle microspie, i “dirigenti” si lasciano andare al raffronto col passato e cedono ai rimpianti. «Il livello è basso», dice il nuovo rappresentante del mandamento di Brancaccio, «arrestano uno e quello si fa subito pentito, ma di che parliamo?».

«Noi cosa possiamo fare?» si chiede smarrito. «Sono altri che oggi fanno il business. Noi siamo gli zingari». Il riferimento pare rivolto ai “cugini” calabresi: la ’ndrangheta è diventata la prima mafia ed è un player essenziale nel narcotraffico mondiale.

Sono frasi che mettono in luce una specie di complesso d’inferiorità: oggi i siciliani sono costretti a smerciare quantità piccole rispetto a quelle movimentate dalle ’ndrine che vantano rapporti privilegiati con i produttori. I clan calabresi spostano i container, i siciliani ne intercettano una piccola parte.

E hanno bisogno di dimostrarsi interlocutori affidabili se non vogliono correre il rischio di essere estromessi dal business.

Le minacce della ’ndrangheta al clan Santapaola

Questo elemento emerge dall’ultima inchiesta della Dda di Catania che ha portato all’arresto (anche) di un deputato dell’assemblea regionale siciliana. Uno dei capitoli riservati agli affari di droga riguarda l’esposizione debitoria di uno degli uomini del clan Santapaola-Ercolano, storica propaggine mafiosa catanese. L’uomo in questione aveva contratto grossi debiti con grossisti calabresi per la fornitura di droga e proprio dalla Calabria arriva, mentre gli investigatori indagano sul business criminale, la richiesta di rientrare nel credito. Il clima si fa teso perché, proprio mentre dalla ’ndrangheta arrivano richieste precise, un’ondata di arresti priva i siciliani di uno dei capi, quello che avrebbe avuto la possibilità di chiudere la questione economica ancora aperta.

L’esponente dei Santapaola ha la pessima idea di mentire ai soci che stanno sull’altra sponda dello Stretto e loro non la prendono bene. Prima rifiutano un acconto di 15mila euro, poi minacciano uno degli interlocutori catanesi: sequestreranno un suo parente come garanzia e fino a quando il debito non sarà chiuso.

Il problema è che, a conferma del fatto che «altri fanno il business», i siciliani non hanno grosse disponibilità economiche. Gli inquirenti assistono così al tentativo di ricomporre i contrasti e, addirittura, al rischio che si scateni un conflitto militare tra le due fazioni. Si capirà, poi, che le minacce dei calabresi sono più millantate che reali e, in ogni caso, i catanesi decidono di attivarsi per ripagare i fornitori. Il debito? In totale 290mila euro dei quali erano stati saldati soltanto 70mila.

Si sperimentano varie possibilità che aggiungono un tocco grottesco alla narrazione che immagina i narcotrafficanti (e in generale i presunti mafiosi) come una cricca di nababbi. Il gruppo legato ai Santapaola cerca un «ragionevole accordo»: prima propone un pagamento a rate mensili, poi si offre di cedere ai calabresi «una motrice, completa di due semi-rimorchi, del valore di 100mila euro». Dalla soluzione stile Findomestic al baratto: ci si prova in tutti i modi anche per scongiurare le minacce che rimangono pur sempre sullo sfondo. Le conversazioni rivelano le difficoltà a reperire le risorse per la droga: per trovare 38mila euro, (dei primi 75mila versati), i siciliani sarebbero stati «costretti a ricorrere a un prestito usurario che stavano ancora pagando»: 6mila euro al mese. Quei 10 chili di cocaina con il simbolo della racchetta erano costati carissimi. Soprattutto in termini di reputazione. Per questo, e per tutelare il reggente del clan che rischiava di rimetterci la faccia, «gli affiliati a Cosa nostra non esitavano a prendere contatti con la ’ndrangheta e a saldare il debito di droga». Ne andava della credibilità e delle serietà rispetto alle altre consorterie mafiose. I tempi sono cambiati e ora sulle rotte del narcotraffico le cosche calabresi contano molto più di quelle siciliane.