L'ex boss della droga era in affari anche con i clan calabresi. In un verbale ha spiegato agli inquirenti la storia del carico indirizzato in Australia e andato perduto: «Non so che fine abbia fatto. Abbiamo perso milioni di euro»
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Liquefatta e mischiata alle fibre dei tappeti, nascosta dentro borsoni in container sicuri, confusa con la frutta fresca in arrivo dal centro America. Sono tanti i modi con cui i narcos trasferiscono fiumi di cocaina da un continente all’altro. Raffaele Imperiale, ex boss del narcotraffico oggi pentito, ne aveva trovato uno che credeva infallibile: i carichi di pietre e marmi, porfido generalmente, in cui occultare il carico supplementare.
Un metodo che a Gioia Tauro avevano utilizzato già nel 2004, quando un’operazione delle forze dell’ordine riuscì ad intercettare un carico di oltre 4 tonnellate di cocaina in arrivo da un porto colombiano.
La droga, in quell’occasione, era stata nascosta dentro un unico enorme masso. E proprio attraverso i canali di una ditta di import/export di marmo, il narcos campano in affari con i boss calabresi e da poco nuovo collaboratore di giustizia, aveva intenzione di trasferire dall’Italia all’Australia un carico di 600 chili. Un carico del valore di milioni di euro poi sparito nel nulla. E che non sembra disturbare più di tanto il boss: «Non so che fine abbia fatto poi questa merce – racconta Imperiale ai magistrati di Napoli che lo stanno interrogando dopo la sua estradizione da Dubai – spero sia stata sequestrata e non rubata».
Perno dei trasferimenti con i carichi di pietre è Domenico Fontana, imprenditore dal business internazionale la cui passione per il calcio lo ha portato a diventare il presidente della squadra di pallone della sua città, Villa Literno.
«Lo chiamavamo “il cafone” – mette a verbale Imperiale – lo utilizzavo poco perché per me era importante. Lo usavo specialmente per le operazioni “dirette” cioè intercontinentali, come i 600 chili per l’Australia». La tratta verso il quinto continente può rivelarsi una miniera d’oro per l’organizzazione. Sul piatto ci sono più di 20 milioni di euro di droga. Una parte, 400 chili, acquistati dal partner australiano (tale Mark) per tramite dello stesso Imperiale, un'altra parte, altri 200 chili, che l’organizzazione decide di investire, in una sorta di joint venture temporanea, con un terzo gruppo di base in Olanda.
L’operazione, destinata a finire con la perdita dell’intera partita, viene messa in piedi in modo certosino, con l’organizzazione che era riuscita anche ritagliarsi una “cresta” di 120mila euro ai danni del compratore finale. «Per l’operazione con l’Australia – mette a verbale il collaboratore di giustizia – mi affidai a Anas, che si incontrò con l’australiano Mark cui doveva arrivare la droga. Abbiamo comprato noi la droga in Olanda per Mark al prezzo di 33 mila euro al chilo. A questo prezzo, dicemmo falsamente che c’erano anche da pagare 2 mila euro al chilo di spese alla ditta».
Gli australiani, nonostante l’aumento del prezzo, hanno fretta di concludere e, nel giro di poche ore, i soldi arrivano a destinazione. «Tramite gli scambisti, Mark mi fece arrivare immediatamente i 14 milioni».
Ma paese che vai, usanze che trovi e per allestire la nuova rotta tocca venire a patti con le consuetudini del posto: «Una volta arrivata in Australia su nave, la merce doveva essere pagata ai prezzi australiani, meno il 20% di merce che secondo gli usi locali, vengono trattenuti come una sorta di dazio dagli importatori locali». Di quel carico però si perderanno le tracce.
«Gli australiani ci dissero che il carico di droga era stato sequestrato – racconta agli inquirenti Bruno Carbone, braccio destro di Imperiale – ma non abbiamo nessuna prova né alcuna notizia sulle fonti aperte».