Maestrale Carthago

La ’ndrangheta a caccia di microspie e la geografia dei clan nel Vibonese: i racconti di Emanuele Mancuso nel maxiprocesso

Il pentito ricostruisce gli organigrammi delle cosche il tentativo dello zio Luigi di riportare la pace. La figura di Ascone e l’alloggio regalato al «massone» Boccardelli (non indagato) «per godere dei collegamenti che aveva in ogni ambiente»

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di Giuseppe Baglivo
12 luglio 2024
14:29
Nel riquadro, Emanuele Mancuso
Nel riquadro, Emanuele Mancuso

Nuova udienza per il maxiprocesso nato dalle operazioni Maestrale-Carthago, Olimpo e Imperium. Dinanzi al Tribunale collegiale di Vibo Valentia è stata la volta dell’esame del collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso il quale - rispondendo alle domande del pm della Dda di Catanzaro Antonio De Bernardo - ha ripercorso brevemente il suo inserimento nel clan di Limbadi e Nicotera con la specifica funzione di bonificare case e terreni dei sodali del clan dalle microspie e dalle telecamere.

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«I capi del clan erano Luigi Mancuso, zio di mio padre Pantaleone, che ho conosciuto nel 2012 quando è uscito dal carcere, e Giuseppe Mancuso, alias ‘Mbrogghja, fratello di mio padre, che ho conosciuto nel 1997 quando era latitante. Formalmente – ha spiegato Emanuele Mancuso – io non sono mai stato affiliato, non ne avevo bisogno. Ho bonificato le case e le auto di Vincenzo e Saverio Spasari, Pasquale Gallone, Antonio Prenesti, la casa di Cannizaro dove si facevano i summit. Unitamente a Giuseppe Navarra di Rombiolo abbiamo comprato una costosa valigetta contenente l’attrezzatura per ritrovare telecamere, gps e microspie. La stessa attrezzatura, inoltre, me la chiese qualche volta Silvana Mancuso, figlia di Giovanni Mancuso, interessata a bonificare le sue proprietà, mentre Scardamaglia me la chiese per conto di Luigi Mancuso. Con Giovanni Battaglia e Perfidio Pantaleone abbiamo trovato anche dei ponte-radio vicino l’abitazione dei Costantino a Comerconi, mentre all’epoca dell’operazione Costa Pulita trovammo una telecamera sopra la casa di Pino Gallone, detto Pizzichju, che puntava verso l’abitazione di Cosmo Michele Mancuso. A volte le microspie e i gps trovati nelle auto venivano da me scollegati e attaccati sotto le vetture delle forze dell’ordine con delle calamite. In ogni caso – ha aggiunto il collaboratore – anche nelle forze dell’ordine il clan Mancuso disponeva di talpe. Per controllare il territorio utilizzavo pure dei droni e il mio compito all’interno della famiglia era inoltre quello di veicolare messaggi tra i componenti del clan».


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Il collaboratore di giustizia si è quindi soffermato su due figure: Salvatore Ascone (imputato nel processo) e Angelo Boccardelli (non imputato). «Salvatore Ascone di Limbadi, detto U Pinnolaru, si occupava del traffico di cocaina ed apparteneva totalmente alla mia famiglia. Per me è stato come una sorta di padrino che mi ha fatto scuola su tante cose in quanto era un soggetto particolarmente furbo. Ascone operava in particolare per conto di mio padre Pantaleone e di mio zio Diego Mancuso, quest’ultimo capo del ramo della famiglia dei sette subito dopo Giuseppe Mancuso. Angelo Boccardelli non era invece calabrese ma era stato detenuto nel carcere di Viterbo con Diego Mancuso ed era un pezzo grosso della massoneria, forse è stato pure segretario di Licio Gelli. In ogni caso Diego Mancuso aveva capito che senza appoggi nella massoneria la sua articolazione, a differenza di quella degli zii, non sarebbe andata da nessuna parte e così mandò una volta me e la mia fidanzata dell’epoca, Nensy Vera Chimirri, a trovare a casa Boccardelli. Successivamente Diego Mancuso allestì un’abitazione per Boccardelli a Limbadi e dopo gli regalò un alloggio nel villaggio dove stava lo stesso Diego Mancuso a Santa Maria di Ricadi. Diego Mancuso godeva così dei collegamenti che aveva Boccardelli in ogni ambiente».

Maestrale Carthago, Mancuso ricostruisce i rapporti tra i clan

Emanuele Mancuso si è quindi soffermato sulle alleanze del clan Mancuso con le altre cosche del Vibonese. «Nella mia famiglia Pantaleone Mancuso, detto Scarpuni, era più propenso a sparare, mentre Luigi Mancuso con il suo carisma aveva riappacificato tutti i clan avendo un potere di ‘ndrangheta altissimo. La mia famiglia, ed in particolare Diego Mancuso, andava d’accordo con Peppone Accorinti di Zungri che comandava in tutta l’area del Poro. Mio padre, in ogni caso, mi diceva di stare lontano da Accorinti in quanto se gli girava uccideva tutti ed era pericoloso. L’unico a non allinearsi alla politica di pacificazione imposta da Luigi Mancuso era stato Leone Soriano di Filandari che seguiva invece una linea stragista fatta di continui attentati e bombe, tanto che Peppone Accorinti mi raccontò di aver ottenuto il placet da Luigi Mancuso per uccidere Leone Soriano. L’altra persona odiata nella mia famiglia era Francesco Mancuso, detto Tabacco, in quanto era stato sparato – rimanendo ferito – mentre era morto Raffaele Fiamingo».

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Nella zona di Cessaniti e Pannaconi, invece, ad avviso di Emanuele Mancuso, operava la famiglia Barbieri, imparentata con gli Accorinti di Zungri, mentre su Tropea «comandavano i La Rosa, Tonino, Francesco e Alessandro, oltre ad altri soggetti detti Patati. I La Rosa andavano d’accordo sia con Diego Mancuso che con il ramo degli undici rappresentato da Luigi Mancuso». A Vibo Valentia il potere mafioso – ha riferito Emanuele Mancuso – era rappresentato «dalle famiglie Lo Bianco, Barba, Pugliese. In particolare, Antonio Mancuso che si trovava pure lui al vertice dei Mancuso e aveva legami con la massoneria, era intimo di Carmelo Lo Bianco, detto Piccinni. Ricordo che Raffaele Barba, detto Pino Presa, portava spesso soldi a casa mia anche per sostenere le spese per la detenzione di mio padre. I Lo Bianco e i Barba comandavano all’ospedale di Vibo dove in molti di loro vi lavoravano pure. Ai vertici del clan c’erano Paolino Lo Bianco, Enzo Barba detto U Musichiere, e Rosario Pugliese detto Cassarola. Negli ultimi tempi a dare fastidio a Vibo Valentia erano Mommo Macrì e Morelli, tanto che Luigi Mancuso aveva mandato a dire a Paolino Lo Bianco di tenere a bada Morelli e Macrì altrimenti ci avrebbe pensato lui stesso». A detta del collaboratore, Luigi Mancuso poteva infatti contare «su persone che sparavano ed erano al suo servizio come Antonio Piccolo e Antonio Prenesti».
Su Sant’Onofrio il potere mafioso sarebbe stato invece esercitato – ha spiegato il collaboratore – dal «clan Bonavota, uscito vincente da una faida contro i Cracolici di Maierato, mentre a Briatico comandavano gli Accorinti, famiglia diversa dagli Accorinti di Zungri che erano invece legati a Gregorio Niglia di Briatico, quest’ultimo attivo anche con gli stupefacenti. A spartirsi gli appalti pubblici nel settore edilizio – ha ricordato poi Mancuso – sia con gli Accorinti di Briatico, sia con quelli di Zungri, era Davide Surace». Entrambi gli Accorinti – ha concluso Emanuele Mancuso nella sua prima parte della deposizione – avrebbero arrestato le proprie pretese criminali nel territorio di Portosalvo, frazione di Vibo Valentia, controllato a livello mafioso dalla famiglia Tripodi.

Giornalista
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