Dalla relazione della commissione parlamentare antimafia:

Più complessi e apparentemente più strutturati appaiono i rapporti tra ‘ndrangheta e massoneria. La stessa struttura originaria della mafia calabrese, per quanto è dato oggi conoscere dalle sentenze passate in giudicato, aveva subìto negli anni Settanta una rilevante mutazione ed evoluzione, laddove era stata prevista la creazione di un livello superiore alla “società dello sgarro”, denominato la società maggiore o la “Santa”, cui affidare il riservatissimo ruolo, sconosciuto anche alla più parte degli appartenenti alle ‘ndrine, di entrare in contatto con una vasta area di potere locale di diversa natura, e di creare un collegamento stabile tra l’associazione mafiosa e i vari centri di poteri presenti nella massoneria. Ed è proprio attraverso la Santa che la ’ndrangheta è entrata in rapporto con la massoneria.

 

Già la Commissione parlamentare antimafia nel corso della XIII Legislatura così si esprimeva al riguardo: “Una struttura nuova, elitaria (…) estranea alle tradizionali gerarchie dei “locali”, in grado di muoversi in maniera spregiudicata, senza i limiti della vecchia onorata società e della sua subcultura, e soprattutto senza i tradizionali divieti, fissati dal codice della ’ndrangheta, di avere contatti di alcun genere con i cosiddetti “contrasti”, cioè con tutti gli estranei alla vecchia onorata società. Nuove regole sostituivano quelle tradizionali, le quali non scomparivano del tutto, ma che restavano in vigore solo per la base della ’ndrangheta, mentre nasceva un nuovo livello organizzativo, appannaggio dei personaggi di vertice che acquisivano la possibilità di muoversi liberamente tra apparati dello stato, servizi segreti, gruppi eversivi”. In sintesi, “una struttura mirante all’obiettivo di ampliare affari e potere dell’organizzazione”. Ancora, sempre da atti piuttosto recenti in relazione ad indagini svolte intorno agli anni 2009-2011, diversi personaggi hanno dichiarato di essere stati contemporaneamente appartenenti ad obbedienze massoniche e alla ‘ndrangheta, tanto da affermare enfaticamente che la massoneria aveva ormai soppiantato l’organizzazione criminale calabrese. Singolari appaiono, al riguardo, le dichiarazioni di altro collaboratore, Cosimo Virgiglio, che sembra ribaltare il rapporto tra i due sistemi. Non sarebbe, a suo avviso, la ‘ndrangheta ad infiltrare la massoneria, bensì questa a servirsi della prima.

 

Oltre alle dichiarazioni dei collaboratori, sono gli stessi atti giudiziari che riportano il dato fattuale sulla contiguità di rapporti e di frequentazioni tra i due sistemi. Da ultimo, si ricordano gli esiti delle più recenti indagini della DDA di Reggio Calabria dove non mancano riferimenti, più o meno espliciti, circa l’esistenza di sinergie fra ‘ndrangheta e massoneria, sempre nell’ambito della citata struttura riservata denominata “la Santa”, che sarebbero finalizzate al perseguimento di una mirata strategia di lungo termine: la progressiva infiltrazione negli ambienti politici, imprenditoriali ed istituzionali. Tale progetto, si afferma in dette inchieste della magistratura calabrese, avrebbe preso corpo fin dalla prima guerra di mafia verificatasi nella provincia di Reggio Calabria negli anni Settanta del secolo scorso e, verosimilmente, avrebbe una portata ancora più vasta ed obiettivi ancor più ambiziosi e trasversali, sino a costituire momento e progetto di coesione tra tutte le varie associazioni criminali di tipo mafioso presenti nel Paese, come si avrà modo di accennare ulteriormente nel corso della presente relazione. In sintesi, le indagini sin qui svolte dalle autorità inquirenti calabresi illustrano un quadro di allarmante pericolosità che sarebbe caratterizzato dall’esistenza di un “mondo di mezzo”, crocevia e luogo di compensazione degli interessi del mondo criminale, dell’imprenditoria e della politica, quasi a riecheggiare in proporzione il modello, pur diverso nelle forme e nei contesti, emerso nell’indagine nota come “mafia capitale”. Gli esiti investigativi consegnano un panorama complessivo di rapporti e collaborazioni con ambienti e soggetti massonici cui non si sottrae alcuna organizzazione mafiosa tradizionalmente presente sul nostro territorio. Esponenti di cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra e sacra corona unita o soggetti comunque riconducibili a tali sodalizi, hanno partecipato a riunioni e incontri con individui appartenenti alle più diverse obbedienze massoniche per pianificare di comune accordo interventi nei più diversificati contesti ed, elettivamente, nel settore degli appalti e nella spartizione delle risorse pubbliche. Una “camera di compensazione di affari”, tipica di quel terzo livello, descritto nella sentenza sull’omicidio Rostagno, in cui si incontrano burocrati, imprenditori, uomini politici e mafiosi, per consentire rapide carriere, assicurare voti, aggiudicarsi appalti e, in genere, per lucrare.

Il contributo dei magistrati calabresi

I magistrati hanno potuto riferire anche di talune indagini già oggetto di discovery. Le recenti acquisizioni investigative, sfociate nei procedimenti "Crimine”, Saggezza”, “Fata Morgana" e “Mammasantissima”, ancora al vaglio del giudice dibattimentale, evidenzierebbero infatti l’esistenza di una componente riservata, le figure dei cd. “invisibili”, “soggetti che, per il ruolo che rivestono, per l'apporto che danno alla ’ndrangheta, per il versante su cui operano devono essere mantenuti coperti”. Essi non si identificherebbero con quella componente riservata già conosciuta, di cui vi è traccia già nell’origine stessa della Santa e di cui si è fatto cenno più sopra, composta da soggetti esponenziali delle singole cosche che venivano inseriti nell'ambito della massoneria per avere occasioni di rapporto con il mondo degli affari e della politica. Al contrario, quello che è emerso dalle più recenti indagini sopra indicate, sembrerebbe prefigurare l’esistenza di un’entità riservatissima in grado di esercitare un controllo quasi totalizzante sulle stesse organizzazioni che ha consentito la coesistenza dei due mondi, quello massonico e quello criminale.

In tal modo la stessa massoneria, così infiltrata tramite la Santa, si sarebbe piegata alle esigenze della ’ndrangheta, così creando all’interno di quel mondo in cui convivevano mafiosi e società borghese-professionale, all’ombra delle logge, un ulteriore livello, ancor più riservato, anzi segreto, formato da soggetti “che restano occulti alla stessa massoneria”. Si tratta di coloro “che, dovendo schermare l'organizzazione ed essendo note soltanto a determinati appartenenti all'organizzazione dei vertici più elevati, non si possono esporre a nessuna altra forma evidente quale possono essere le associazioni massoniche”32 . Su tale ultimo aspetto, relativo ad un "livello" superiore e diverso dalla massoneria e quindi per certi versi persino ulteriore rispetto all'oggetto della presente inchiesta, occorrerà, naturalmente, attendere gli esiti processuali per un quadro più completo e stabile delle acquisizioni conoscitive

Il ruolo di Di Bernardo, già gran Maestro

Tra le numerose dichiarazioni raccolte nel corso dell’inchiesta parlamentare, anche nelle forme dell'audizione a testimonianza di cui all'articolo 4 della legge 89 del 2013, appare significativo soffermarsi, in primo luogo, su quella resa da Giuliano Di Bernardo e poi, specularmente, su quella del collaboratore di giustizia Francesco Campanella. E’ interessante,

infatti, cogliere i diversi aspetti della stessa medaglia, ponendo a confronto il punto di vista e l’esperienza di due diversi appartenenti alla stessa obbedienza massonica: l’apice e la base.

Giuliano Di Bernardo - iniziato alla massoneria nel 1961, maestro venerabile nel 1972 della loggia bolognese “Zamboni de Rolandis” ove era “coperto”, eletto poi gran maestro del GOI l’11 marzo 1990 - in seguito alla cosiddetta “inchiesta Cordova” il 16 aprile 1993 si dimise dalla carica per fondare una propria autonoma obbedienza, la Gran Loggia Regolare d’Italia (GLRI), di cui fu gran maestro dal 1993 al 2001, fino a quando nel 2002 non decise di lasciare anche l’obbedienza da lui fondata abbandonando del tutto la massoneria.

Al di là dei possibili livori maturabili in tutti gli ambiti associativi (e di cui vi è traccia anche nelle dichiarazioni di Bisi allorché parla di Di Bernardo), si ritiene, in questa sede, di dovere attribuire un particolare interesse alle dichiarazioni dell’ex gran maestro del GOI in merito alle sue conoscenze circa il funzionamento della massoneria e agli episodi da lui constatati (per i quali, appunto, lasciò il Grande Oriente d’Italia34), posto che, anche in base all’ordinamento di tale obbedienza, il gran maestro è “garante della Tradizione Muratoria”, al quale tutto viene rapportato e riferito e, come spiegato, è anche colui che può conoscere l’esistenza di eventuali “fratelli all’orecchio” all’interno dell’intera associazione.

In particolare, nell’audizione a testimonianza resa dinanzi alla Commissione il 31 gennaio 2017, Di Bernardo ha riferito che, nel corso di un incontro avvenuto nel 1993 tra i vertici del GOI, gli era stato riferito “con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla ‘ndrangheta” e che ciò nonostante nessun provvedimento era stato adottato in merito, né sarebbe stato preso per paura di “rappresaglie”. Furono proprio queste argomentazioni ad indurlo a prendere immediatamente contatti con il Duca di Kent – referente di prestigio della massoneria ufficiale a livello internazionale – al fine di esporre la situazione in cui versava l’obbedienza, ricevendo in risposta di averne già avuto notizia da ambienti dell’Ambasciata in Italia e dei servizi di sicurezza britannici.

Di Bernardo aggiunge che, in realtà, già in precedenza - intorno agli anni ’90 - aveva avuto modo di apprendere notizie inquietanti sull’infiltrazione delle organizzazioni mafiose nelle logge del GOI e, in particolare, della Sicilia dove la situazione appariva gravemente compromessa. Nel corso di una riunione a Palermo, l’allora vertice GOI delle logge siciliane gli aveva persino consigliato di non accettare l’invito del presidente del consiglio regionale, proveniente da Campobello di Mazara, in quanto mafioso o collegato con la mafia. Tutti elementi, questi, che lo avevano indotto a chiedersi se gli ispettori del GOI facessero realmente i controlli previsti. Proprio a causa di tali “presenze”, Di Bernardo aveva abbandonato il GOI, decidendo di fondare una nuova obbedienza (GLRI) dove, per evitare il rischio delle infiltrazioni mafiose, ha dichiarato di aver assunto regole più stringenti, quali la consegna annuale al Ministro dell’interno dell’elenco completo degli iscritti, l’abolizione dei cappucci e delle spade in quanto ritenuti ormai anacronistici e, infine, la certificazione dei bilanci. Tuttavia, nonostante l’adozione di tali misure, nemmeno questa volta era riuscito nel suo intento di garantire trasparenza ad una obbedienza e, pertanto, aveva preso la grave decisione di abbandonarla nel 2002 e di lasciare definitivamente il mondo composito della massoneria. Dava poi contezza della giustizia massonica come indipendente ed autonoma da quella “profana”: “Un massone viene condannato per un reato che ha compiuto nella società, però per la massoneria questo non è sufficiente per convalidare quel giudizio. La massoneria dà a se stessa l’autorità di fare la sua verifica per emanare il suo verdetto, che a volte può concordare con quello profano, altre volte no”. Pertanto non vi è l’obbligo di denunciare neanche se si viene a conoscenza dell’appartenenza di un “fratello” ad una associazione mafiosa; dall’audizione emergeva, altresì, che il rifiuto della giustizia “profana” è nel modo di essere di un’associazione massonica. Anche se Di Bernardo ha potuto riferire di fatti risalenti agli anni ’90 (peraltro corrispondenti alla stagione delle stragi politico-mafiose che insanguinarono l’Italia in quel terribile periodo), la portata e la gravità delle sue dichiarazioni è di tutta evidenza, emergendo uno spaccato di un’associazione che, contrariamente ai valori che professa, non si prefigge il rispetto della legalità e tollera pratiche di segretezza. Ancor più grave la mancata reazione a fronte di una espressa denuncia di presenza mafiosa nelle sue logge. Alcune di esse verranno poi “abbattute”, ma mai è stata palesata la presenza o solo il rischio di presenze devianti, nelle motivazioni degli scioglimenti. Il quadro riferito è inquietante, ancor più perché proveniente da colui che è stato al vertice dell’obbedienza e che, nonostante il suo grado, non è riuscito a dar vita ad un dibattito all’interno dell’associazione per estirpare il pericolo di infiltrazione e condizionamento mafioso.

La presenza mafiosa nelle logge

La Commissione si è posta, tra gli altri, l’obiettivo di approfondire il tema delle logge massoniche abbattute46 nelle regioni della Sicilia e della Calabria e la ragione effettiva del loro scioglimento, essendosi rilevato che, in alcuni casi, come quello relativo alla loggia del GOI “Rocco Verduci” di Gerace (RC) di cui si tratterà, le cause di cessazione erano state esternate con motivi di natura formale e non con le reali motivazioni inerenti l’accertata infiltrazione mafiosa. Sulla base di quanto rilevato dallo SCICO della Guardia di Finanza, delegato dalla Commissione alle operazioni esecutive del sequestro, le quattro obbedienze hanno provveduto nel complesso a sciogliere 138 logge, di cui 86 in Sicilia e 52 in Calabria. In particolare, 25 logge sono appartenenti al Grande Oriente d’Italia, 52 alla Gran Loggia d’Italia, 41 della Gran Loggia Regolare d’Italia, e 20 alla Serenissima Gran Loggia d’Italia. Non è facile ricostruire in concreto i motivi degli scioglimenti. Nell’assoluta maggioranza dei casi, la documentazione rinvenuta sulle logge abbattute è infatti apparsa carente di taluni documenti essenziali. Sebbene, infatti, il provvedimento di sequestro prevedesse l’acquisizione dell’intero fascicolo di loggia, è accaduto non di rado che la polizia giudiziaria incaricata sia riuscita a rinvenire solo documentazione incompleta o parziale, ove talvolta mancano gli atti di fondazione delle logge, i decreti di “abbattimento delle colonne” o di sospensione, nonché i piedilista di loggia riportano i nominativi degli iscritti senza indicazione dei relativi dati anagrafici degli iscritti così impedendone la compiuta identificazione. Rarissimi, infine, sono i casi in cui nei fascicoli siano stati rinvenuti gli atti relativi ad una “ispezione massonica” da cui poter dedurre le reali motivazioni che hanno condotto allo scioglimento della loggia. In realtà, tra i pochi casi (su 138 logge sciolte) in cui è stata rinvenuta documentazione pressoché completa si cita la loggia “Rocco Verduci” del Grande Oriente d’Italia.

La loggia “Verduci”

Atteso il cospicuo numero di casi rilevati di logge abbattute, per un principio di economia dei tempi d’inchiesta, si è reso pertanto necessario limitare gli approfondimenti ad un campione selezionato di logge. In primo luogo, sono state esaminate le logge del GOI abbattute nel reggino (logge di Gerace, Locri e Brancaleone), citate dal gran maestro Bisi nel corso delle sue audizioni quali logge sciolte in Calabria durante la sua granmaestranza per ragioni, a suo dire, di natura formale e organizzativa51. Sulla loggia di Gerace, la “Rocco Verduci”, si ritornerà più volte nel corso della relazione in quanto indicativa di plurime situazioni ritenute emblematiche ai fini della presente relazione, mentre, in questa sede, ci si limiterà alla questione della sua infiltrazione mafiosa. 

Peraltro, parte delle vicende di questa officina massonica sono già note anche alla stampa atteso che, come si vedrà, la notizia della sospensione della loggia per infiltrazioni malavitose aveva avuto a suo tempo ampio risalto negli organi di informazione calabrese destando l’attenzione dell’opinione pubblica calabrese sull’interesse della ‘ndrangheta ad infiltrarsi nella massoneria. Le tormentate vicende di tale articolazione avevano avvio il 28 dicembre 2007 quando dieci appartenenti ad altra loggia del GOI (“I Figli di Zaleuco, n. 995” di Gioiosa Jonica) sottoscrivevano l’atto per fondare la “Rocco Verduci”. Secondo quanto si legge nella documentazione in sequestro, ad avviso di un massone protagonista di quelle vicende, tra i fondatori di fatto della nuova officina vi sarebbe stato anche un undicesimo fratello, già appartenente alla "Figli di Zaleuco” e massone del GOI sin dal 1981, non risultante dagli atti. Si trattava di un medico incensurato, impiegato presso la ASL di Locri, ma figlio di un notissimo esponente di primo piano della ‘ndrangheta della Locride, riconosciuto come uno dei capi storici dell’organizzazione mafiosa calabrese52. Per inciso, va detto che anche un altro figlio del medesimo capomafia, dipendente regionale, secondo i dati estratti dalla Commissione, è risultato presente negli elenchi della Serenissima Gran Loggia d’Italia, con il risultato oggettivo che una delle famiglie più potenti della ‘ndrangheta calabrese, ha goduto di un proprio presidio, tramite familiari incensurati, in due diverse organizzazioni massoniche.

A poco più di anno dall’atto di fondazione, la loggia veniva effettivamente costituita il 18 aprile 2009 (cd. innalzamento delle colonne) con decreto del gran maestro Gustavo Raffi che disponeva, altresì, il transito nella nuova articolazione dei medesimi dieci membri fondatori e, tra questi, pertanto, non appariva quell’undicesimo fratello, cioè il figlio medico del capomafia, che, invece risulterà formalmente iscritto nella loggia solo due anni dopo, ovvero a partire dal 7 giugno 2011. Nel luglio 2013, un massone della “Rocco Verduci”, avvocato e magistrato onorario presso un ufficio giudiziario calabrese, denunciava al vertice calabrese del GOI il fatto che alla loggia appartenessero soggetti vicini alla malavita organizzata o comunque aventi stretti rapporti di parentela con esponenti della ‘ndrangheta e che questa situazione andava via via ad essere insostenibile tenuto anche conto che nell’ultima tornata di iniziazione di sei nuovi “profani” erano stati presentati tre candidati (cd. bussanti) dal profilo a dir poco problematico: uno, infatti, era indicato come affiliato alla ‘ndrangheta”, l’altro noto per essere il figlio di un soggetto arrestato per mafia nell’operazione “Saggezza” e, infine, il terzo era anche lui figlio di uno ‘ndranghetista arrestato per associazione mafiosa. Per i primi due soggetti, il magistrato massone era persino in grado di documentarne le relative vicende, ed invero, affermava di aver prodotto ai suoi superiori massoni copia di specifici atti giudiziari di cui era potuto entrare in possesso in ragione della sua funzione di magistrato onorario. Tali circostanze furono dapprima comunicate al responsabile e agli altri vertici della loggia (il maestro venerabile pro tempore e il “consiglio delle luci”) ma non sortirono l’effetto sperato di allontanare tali individui, tant’è che il massone-magistrato onorario si sentì costretto ad investire della questione direttamente il vertice regionale calabrese del GOI anche al fine di interrompere la procedura di iniziazione dei nuovi bussanti e di porre un freno al dilagare della presenza ‘ndranghetista nella loggia. In questa nuova segnalazione, venivano riferiti ulteriori gravi fatti. In primo luogo, si descrivevano con dovizia di particolari tutte le occasioni d’incontro in cui il magistrato massone aveva messo in guardia i suoi superiori di loggia sui rischi di infiltrazione ‘ndranghetista, condividendo con costoro informazioni, a suo dire, assolutamente attendibili sui nuovi bussanti in quanto acquisite da un ufficiale delle forze di polizia operanti su Locri. Peraltro, al fine di suffragare la veridicità delle proprie affermazioni, non esitava a chiamare in causa tra i testimoni in grado di confermare l’esistenza di tali incontri e circostanze, anche un dipendente amministrativo della Procura della Repubblica di Locri, anch’egli massone del GOI ma appartenente ad altra loggia. In secondo luogo, venivano riferiti i nomi di quattro fratelli ritenuti contigui ad ambienti malavitosi, ovvero, due tra i massimi dignitari di loggia (uno dei quali era indicato quale legale di fiducia di familiari del predetto capomafia), nonché altri due, di cui uno era il citato figlio medico del capomafia e, l’altro, il figlio di un noto usuraio della locride poi assassinato. Da ultimo, ed è forse l’aspetto più inquietante, dagli atti ispettivi della loggia emergevano elementi che inducono a ritenere che all’interno della “Rocco Verduci”, in almeno due circostanze, si fossero verificate situazioni sintomatiche di gravi tentativi di corruzione in atti giudiziari in relazioni a vicende processuali che intersecano il mondo della ‘ndrangheta calabrese. Ma di questo si tratterà più avanti. Tali allarmanti segnalazioni davano luogo così ad una “ispezione massonica” disposta dal gran maestro Raffi nel corso della quale gli incaricati, oltre ad approfondire le vicende denunciate, raccoglievano una plastica dichiarazione di un massone di antica data secondo il quale, in conseguenza della presenza di soggetti aderenti o contigui alla ‘ndrangheta, diversi altri massoni calabresi avevano deciso di mettersi in sonno “per non avere a che fare con soggetti legati alla malavita” e che, anzi, egli stesso, già maestro venerabile di altra loggia della Locride si era sentito moralmente costretto, sin dal dicembre del 2012, a presentare una lettera formale di assonnamento. Al di là degli accertamenti degli ispettori sulla loggia di Gerace, va detto che quei sospetti trovano un certo riscontro nell’analisi condotta dalla Direzione Investigativa Antimafia sul conto di tutti i membri della “Rocco Verduci”, gran parte dei quali ora in sonno o espulsi, altri invece tutt’ora nei ranghi del GOI in altre logge dell’alto ionico reggino. Su venti associati, tra membri allora attivi e bussanti, cinque risultano collegati con soggetti aventi precedenti di polizia per associazione mafiosa e, talvolta, anche per traffico di stupefacenti, altri due, invece, pregiudizi per riciclaggio di proventi illeciti ed uno per estorsione. Ulteriori tre aderenti alla loggia annoverano precedenti di polizia per associazione di tipo mafioso, omicidio volontario, estorsione e tra questi, in tempi risalenti, vi è anche chi ha scontato la misura di pubblica sicurezza dell’obbligo di soggiorno.

Si aggiunga che, alla loggia “Rocco Verduci” aderivano medici ospedalieri della disciolta ASL n. 9 di Locri, dipendenti pubblici, avvocati e imprenditori del luogo55. Un quadro dunque desolante, in cui i professionisti o erano contigui alla mafia o, tramite quella loggia, coltivavano vincoli di fratellanza con soggetti condannati o in odore di ‘ndrangheta, o inseriti nel narcotraffico o coinvolti nel riciclaggio di proventi illeciti. Il 20 settembre 2013, il gran maestro Raffi emetteva il provvedimento cautelare di sospensione della loggia motivandolo anche per “un possibile inquinamento, addirittura di carattere malavitoso, riconducibile all’ambiente circostante, che ingenera inquietudine e disarmonia anche tra i fratelli della Circoscrizione”. Pochi mesi dopo, il 20 giugno 2014, Stefano Bisi, divenuto il nuovo gran maestro del GOI, revocava la sospensione della loggia sostenendo che “allo stato sono venute meno le ragioni che consigliarono l’adozione del provvedimento cautelare”. Tuttavia, la gravità di quella situazione, lo costringeva più tardi, in data 21 novembre 2014, a sciogliere loggia, senza però esplicitarne in modo chiaro le ragioni ed anzi, concedendo la possibilità a molti di quegli stessi fratelli “malavitosi” iscritti alla “Rocco Verduci” di chiedere l’affiliazione ad altra loggia della stessa circoscrizione. Anche questo aspetto della vicenda sarà approfondito più avanti.

Le altre logge

Di seguito si continuerà la disamina delle logge sciolte indicate da Bisi, nonché quelle delle altre obbedienze. Si anticipa da ora che per molti degli appartenenti a tali articolazioni sono stati riscontrati, oltre che precedenti penali, anche “elementi di polizia”, consistenti in denunce o segnalazioni nei confronti di tali soggetti nonché controlli di costoro con soggetti appartenenti alla ‘ndrangheta. Si tratta, ovviamente, di dati che da un punto di vista giudiziario non assumono alcuna rilevanza, tuttavia, ai fini della presente inchiesta, assumono valenza in quanto notizie verosimilmente note in piccoli centri che avrebbero potuto costituire un primo sintomo di pericolo ed indurre i vertici, centrali e regionali, delle varie obbedienze all’intensificazione dei controlli (che saranno oggetto, in altra parte della relazione, di alcune riflessioni).

 

Vero è che, in concreto, poi quelle logge con quegli appartenenti sono state oggetto di scioglimento, ma è anche vero, da un lato, che non risultano attività ispettive disposte in tal senso, e dall’altro che nei decreti di scioglimento, qualora rinvenuti, non si fa alcun cenno a possibili inquinamenti della criminalità organizzata. Proseguendo la disamina, circa la seconda loggia indicata da Stefano Bisi come sciolta per “motivi organizzativi” vi è quella dei “I Cinque Martiri” di Locri (la loggia di Locri). Da una verifica di polizia eseguita dalla Direzione Investigativa Antimafia sugli aderenti alla predetta loggia, per un totale di 75 soggetti, sono emersi 18 massoni con elementi indicativi di una loro appartenenza, riconducibilità o contiguità alla ‘ndrangheta. In particolare, cinque di questi sono gravati da significativi precedenti di polizia. Ben tre di essi hanno precedenti specifici per associazione mafiosa, uno per estorsione e un terzo, dipendente pubblico, è stato sottoposto agli arresti domiciliari nel 2007 per associazione per delinquere e corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio. Altri 13 appartenenti alla loggia sono risultati in rapporti di frequentazione con soggetti aventi pregiudizi per associazione di tipo mafioso e, in taluni casi, anche per riciclaggio ed estorsione. Nei confronti di due membri della loggia, indagati per reati di concorso esterno in associazione mafiosa, veniva emessa una tavola di accusa poiché avevano omesso di riferire tale circostanza al maestro venerabile della loggia di appartenenza.

 

La notizia della loro sottoposizione a indagini veniva appresa da fonti di stampa. Il tribunale massonico circoscrizionale, il 30 novembre 2013, emetteva sentenza con cui i due soggetti venivano assolti da ogni addebito, con la motivazione che dall’istruttoria svolta non erano emersi ”elementi neppure indiziari, per poter ragionevolmente sostenere che gli incolpati potessero essere a conoscenza dell’esistenza delle indagini a loro carico” e che dunque non avevano mentito ai loro superiori. Si noti, dunque, come la questione riguardasse, non tanto il merito (cioè che i predetti erano sottoposti ad una inchiesta di mafia) quanto il mero fatto di non aver detto nulla ai propri superiori. Dagli atti del processo nessuno infatti chiede agli accusati, magari sotto giuramento massonico, se i fatti apparsi sulla stampa fossero o meno fondati. Peraltro, si rileva che nei confronti di uno di loro veniva riconosciuta, a sua discolpa, la circostanza di non aver avuto alcuna comunicazione formale da parte dell’A.G. e che non riteneva che la fonte di stampa si riferisse a lui. In realtà, nel processo massonico risulta addirittura che era stata acquisita agli atti dell’obbedienza l’informativa dell’Arma dei carabinieri. Ma, si affermava, che a tale informativa della p.g. non era opportuno dare rilevanza in quanto ”risulta(va) notevolmente retrodatata rispetto alla contestazione dell’addebito, per cui se vi fossero stati sviluppi e /o seguiti alla predetta informativa, gli stessi sarebbero emersi nel corso dell’odierno processo muratorio”. La loggia è stata cancellata il 21 novembre 2014 disponendo, tuttavia, che i suoi appartenenti potessero continuare l’attività massonica affiliandosi ad altra articolazione del GOI calabrese. Poiché negli atti acquisiti dalla Commissione non vi è traccia del testo del decreto di abbattimento, non è possibile conoscere le ragioni formali del provvedimento. çç Nella terza loggia indicata da Bisi (la loggia di Brancaleone), cioè la “Vincenzo De Angelis” di Brancaleone (RC), sono stati censiti 21 iscritti56, quasi la metà di essi dipendenti pubblici (10), di cui sei dipendenti dell’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria e altri due appartenenti ai ministeri della giustizia e della difesa. Tra i soggetti impiegati nel privato prevale la professione di medico (3). Per poco meno della metà degli appartenenti alla loggia di Brancaleone (8) risultano frequentazioni con numerosi soggetti aventi gravissimi pregiudizi per associazione mafiosa, traffico internazionale di stupefacenti ed estorsione. Sul conto di altri due aderenti alla loggia, entrambi dipendenti pubblici, risultano, in un caso, gravami per omicidio volontario, reati contro la pubblica amministrazione e truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche e, nell’altro, per associazione per delinquere, truffa e reati contro la pubblica amministrazione.

La loggia è stata cancellata il 26 febbraio 2016. Nel relativo decreto di abbattimento veniva consentito a 17 iscritti, di cui uno sospeso, di continuare a frequentare l’obbedienza affiliandosi ad altra loggia. Il provvedimento richiamava le relazioni ispettive -non rinvenute tra gli atti acquisiti dalla Commissione- e la delibera di giunta del GOI dove si faceva chiaro riferimento, oltre a carenze di ritualità e all’esistenza di polemiche interne, al fatto che erano risultati procedimenti penali a carico di fratelli e che purtuttavia erano stati eletti alle più significative cariche di loggia.

Il grado di pervasività della ‘ndrangheta della Locride in contesti massonici non sembra limitarsi, tuttavia, alle sole logge del Grande Oriente d’Italia. Dalle analisi a campione effettuate sulle logge abbattute in Calabria, emergono profili di criticità anche per la loggia, poi abbattuta, denominata “Mario Placido” di Roccella Jonica (RC) affiliata alla Serenissima Gran Loggia d’Italia. Almeno sette dei suoi appartenenti sono, infatti, risultati collegati con esponenti della ‘ndrangheta calabrese ed un altro annovera pregiudizi per corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio. Colpisce, in particolare, il profilo personale di un massone appartenente a tale loggia il quale, benché sostanzialmente incensurato, risulta essere stato, da precedenti di polizia, in rapporto di frequentazione con ben ventuno soggetti con precedenti per mafia e con altri soggetti indiziati di essere coinvolti nel traffico di stupefacenti. A chiosa degli elementi di rischio emersi per questa loggia, va segnalato che nel relativo piè di lista compare altresì un figlio del citato capo ‘ndrangheta di Locri, fratello di altro massone presente nelle fila della loggia GOI “Rocco Verduci”.

Negli atti acquisiti nell’ambito dell’inchiesta, non è stato rinvenuto il decreto di abbattimento della loggia né le ragioni formali o di fatto che hanno condotto all’adozione di tale provvedimento da parte del gran maestro dell’obbedienza.

La loggia Araba fenice e Giovanni Zumbo

Sempre nel reggino è risultata, poi, attiva la loggia “Araba Fenice n. 98” di Reggio Calabria appartenente alla Gran Loggia Regolare d’Italia (GLRI) i cui iscritti risultano privi delle complete generalità, sia nell’elenco acquisito dalla Commissioni presso la sede centrale dell’obbedienza sia nel fascicolo cartaceo di loggia. Tuttavia, si ha più che fondato motivo di ritenere che un iscritto alla loggia, tale “Giovanni Zumbo” (privo del luogo e della data di nascita), sia l’omonimo commercialista calabrese condannato ad 11 anni di reclusione con sentenza definitiva emessa dalla Corte di Cassazione nel 2016 in relazione all’operazione della DDA di Reggio Calabria denominata “Piccolo Carro” 57 per concorso esterno in associazione mafiosa, in cui emerge chiaramente la sua appartenenza alla massoneria, al pari del carabiniere di cui si dirà in seguito. La figura di Giovanni Zumbo appare emblematica sul ruolo di cerniera che la massoneria può assumere tra la ‘ndrangheta, da un lato, e gli apparati dello Stato, dall’altro. Nel corso di un’audizione del 2012 presso questa Commissione nell’ambito della XVI Legislatura, l’allora procuratore aggiunto presso il Tribunale di Reggio Calabria, Michele Prestipino, in relazione alle vicende della partecipata Multiservizi del capoluogo reggino ebbe modo di illustrare diffusamente ed efficacemente la figura del commercialista. “Il signor Zumbo, che fa da prestanome [alla cosca Tegano, n.d.r.], è soggetto particolare: se volessimo scrivere un paragrafo sul manuale della zona grigia, il signor Zumbo sarebbe una figura scolastica di componente della zona grigia perché esercita una libera professione, ha uno studio che lo mette in contatto con tutto il mondo dei liberi professionisti, ha rapporti con la magistratura perché fa l’amministratore dei beni sequestrati e confiscati, amministrava patrimoni di mafia importantissimi non solo per la rilevanza economica, ma anche dal punto di vista dei nomi degli ‘ndranghetisti cui questi patrimoni appartenevano”. “Ma soprattutto Zumbo è quel soggetto - non dimentichiamolo – che a marzo 2010 va a casa di Giuseppe Pelle, il figlio di Antonio Pelle Gambazza, e gli rivela tutte le notizie che in quel momento erano segrete e che certamente non circolavano, o non avrebbero dovuto circolare sull’indagine "Crimine". Zumbo riferisce a Pelle di essere in grado di consegnargli, anche qualche giorno prima, la lista di coloro che sarebbero stati arrestati e soprattutto gli dice, a marzo, i nomi dell’operazione, tutte le caratteristiche, le procure che collaborano e soprattutto gli riferisce che entro giugno sarebbero state arrestate 300 persone. Noi ne abbiamo arrestato 300 il 9 luglio. Questo è il personaggio”. Chiosa, dunque, l’audito delineando in sintesi il ruolo di tale professionista: “Quindi Zumbo è cerniera perché ha contatti con i mafiosi, fa il prestanome dei mafiosi e detiene un patrimonio" che "comprende una quota considerevole “della società partecipata di Multiservizi e, dall’altro lato, ha contatti anche con apparati dello Stato”. L’audizione, si ricorda, risale al 5 dicembre 2012 e a quella data il magistrato calabrese si rammaricava del fatto che “nonostante tutti i nostri sforzi investigativi – e vi assicuro che ne abbiamo fatto tanti – non siamo riusciti a capire, sapere e scoprire chi avesse mandato il signor Zumbo a casa di Pelle a dare quelle notizie e proporre patti scellerati”, ma soprattutto “chi gliele avesse fornite da offrire”. A distanza di circa quattro anni dall’audizione, la citata sentenza della Corte ha, però, offerto una risposta al rammarico di un tempo del magistrato, dando contezza degli ambigui rapporti che intercorrevano tra lo Zumbo e alcuni appartenenti alle forze dell’ordine, tra cui un carabiniere, noto anche per aver svolto – scrive la Corte – “un ruolo determinante” nel ritrovamento dell’autovettura, carica di armi e ed esplosivo, a pochi passi dal luogo dove avrebbe dovuto passare il corteo presidenziale al seguito dell’allora Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, il 21 gennaio 2010.

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Secondo le indagini, il ritrovamento era una messa in scena ordita dal boss Giovanni Ficara ai danni del cugino Giuseppe, suo rivale, al fine di far ricadere su di questi le responsabilità giudiziarie di tale azione, trama ordita con la complicità dello Zumbo. Orbene, non appare dunque una semplice coincidenza il fatto che nel piedilista della loggia “Araba Fenice” della GLRI sia stato rinvenuto, accanto al nominativo di “Giovanni Zumbo”, anche quello del carabiniere, beninteso, anche questo privo di luogo e data di nascita, e quindi anche questo “omonimo” del soggetto suindicato. Quanto alle vicende della loggia “Araba Fenice”, da quel poco che è stato possibile ricostruire dagli scarni atti disponibili, si evince che lo scioglimento è stato disposto dal gran maestro Venzi nel giugno del 2011 per “inadempienze nella gestione della loggia” e per le “dimissioni da parte dei Fratelli a piè di lista”. Motivazioni, dunque, di stretto rito massonico, senza alcun cenno ad ipotesi di infiltrazione mafiosa. Né, d’altronde, vi è traccia, negli atti acquisiti, del fatto che le autorità centrali dell’obbedienza abbiano ritenuto necessario disporre un’ispezione interna alla loggia, iniziativa quanto mai necessaria data quella peculiare situazione ambientale. L’esplorazione a campione è stata, infine, estesa anche ad alcune logge sciolte con sede in altre aree della regione Calabria.

La loggia Lacinia

Nel territorio di Crotone, è stata esaminata la loggia GOI “Lacinia” che si caratterizza, in particolare, per il fatto che nell’ambito dei soggetti che ne hanno fatto parte è stata individuata una dozzina di massoni con evidenze, risalenti al luglio 2007, attinenti al reato di cui all’art. 2 della legge 17/1982 sulle associazioni segrete, taluni dei quali peraltro in posizione di dipendenti pubblici (personale del ministero della giustizia, dell’agenzia delle entrate, dell’INPS, ecc.). Anche per questa loggia non mancano coloro per i quali gli elementi di polizia indicano rapporti di frequentazione con soggetti pregiudicati. In un caso, un massone della loggia “Lacinia” è stato posto in relazione con tre diversi esponenti ritenuti appartenenti alla ‘ndrangheta, due dei quali anche con pregiudizi per traffico di droga e l’altro per estorsione. In un altro, vi è traccia di una frequentazione con un soggetto con precedenti per mafia, estorsione e usura. Per altri due membri della loggia sono emerse evidenze di polizia per il reato di estorsione e per corruzione. La loggia risulta sciolta il 9 luglio 2010 dal gran maestro Raffi per contrasti all’interno della loggia e per altre violazioni di mero rito massonico.

 

c.m.