VIDEO | Il fotoreporter Saverio Caracciolo racconta l’incredibile storia di un pastore di Longobucco che da decenni vive da solo tra le montagne della Sila greca
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L’ultimo brigante della Calabria ha gli occhi tristi ma asciutti di chi ha lontane colpe che non possono più essere espiate, se non con il doloroso e inutile rimpianto di una vita che poteva andare diversamente.
L’ultimo brigante ha il passo lento di chi porta sulle spalle il peso di un’esistenza passata a scappare prima dalla legge e poi dalla gente, dalla modernità, dalla normalità di una casa con la tv.
L’ultimo brigante ha il volto di Ottavio Forciniti, 60 anni, forse di più, che ancora si inerpica sui pendii scoscesi della Sila greca e si addentra nei boschi che circondano Longobucco, in provincia di Cosenza, per condurre al pascolo le sue 40 vacche, con le quali vive all’addiaccio, spostandosi da una baracca all’altra, da un rifugio all’altro, seguendo il ritmo lento della transumanza. La sua storia la racconta il fotoreporter Saverio Caracciolo, nell’ultima puntata di LaC Storie.
«Non è il lavoro che invecchia le persone, sono i dispiaceri», sussurra Ottavio, che deve il suo nome al fatto di essere l’ultimo di otto figli. A 5 anni rimase orfano e cominciò la ripida salita di una vita che non gli ha mai concesso tregua, salvo quando ritrova se stesso nel silenzio delle montagne che lo hanno accolto: «Ero piccolo, ma dovevo fare il lavoro dei grandi, dovevo fare quello che mi dicevano di fare... forse è per questo che il mio carattere divenne rissoso. Così mi misi nei guai. Oggi, non rifarei nulla di ciò che ho fatto allora». Liti e botte, poi un'accusa di tentato omicidio.
«Meglio morto che in galera – racconta -. I carabinieri mi cercavano e io fuggii sulle montagne».
Per 8 anni ha vissuto così, lontano da tutti, nascondendosi di giorno e spostandosi di notte, mangiando frutta e ortaggi. «Non volevo che si riferissero a me chiamandomi latitante - dice -, così scelsi di farmi chiamare brigante. Ecco, io sono l’ultimo dei briganti». E come loro ha vissuto, frequentando gli stessi luoghi e utilizzando gli stessi rifugi, le grotte che costellano la zona. Poi, dopo quasi un decennio in fuga, gli giunge la notizia che da Roma è arrivata “una carta”, un atto giudiziario che gli consentirebbe di tornare in paese da uomo libero.
Difficile capire di cosa si trattasse. Gli esiti della sua vicenda giudiziaria forse non li conosce a fondo neppure lui, ma dall’arrivo di quel documento dalla Capitale, le forze dell’ordine smettono di cercarlo. «All’inizio non mi fidavo e ancora oggi non sono certo che abbiano smesso di darmi la caccia». Ormai, però, dopo decenni passati a vagare nei boschi del parco della Sila, la solitudine è l’unica cifra esistenziale che conosca, l’unica che gli consenta di sentirsi a proprio agio.
La pastorizia è diventata la sua passione e la sua fonte di sussistenza, la montagna resta la sua casa. Guida la sua mandria di bovini, ne rivendica con orgoglio l’appartenenza alla razza podolica («Sono bestie rustiche, che hanno bisogno di poco per vivere, proprio come me») e ancora oggi continua a fuggire da un passato che però non lo insegue più.
Il reportage integrale realizzato da Saverio Caracciolo: