Ivan Barone lo avrebbe saputo da Luigi e Marco Abbruzzese; al parla-parla che si faceva nel gruppo criminale, sostiene di essersi abbeverato, invece, Francesco Greco. Gli ultimi due pentiti che puntano il dito contro Roberto Porcaro, si aggiungono a un elenco già nutrito di collaboratori che, in tempi diversi, lo indicano come mandante dell'omicidio di Pino Ruffolo (22 settembre 2011) consumato a Cosenza in via degli Stadi. Proprio le loro dichiarazioni sono valse al viceboss, tuttora detenuto per “Reset”, una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere.

La delusione dell'assassino

Quello più prodigo di dettagli è Greco, che agli inquirenti ha raccontato di essersi mosso come braccio destro di Porcaro in settori quali droga, usura ed estorsioni. Riguardo al delitto Ruffolo, lo stesso documenta da un lato «il silenzio» opposto dal suo capo sull'argomento, dall'altro la voce “para” diffusasi all'interno dell'organizzazione a proposito del suo coinvolgimento. Il pentito riferisce inoltre di aver saputo all'epoca che Massimiliano D'Elia, l'esecutore materiale del delitto, era «molto scontento» per il fatto di aver pagato solo lui per quel crimine a differenza di Porcaro che, invece, l'aveva fatta franca. Tutto questo, Greco lo avrebbe appreso sempre in modo indiretto, da un codetenuto di D'Elia che ne avrebbe raccolto lo sfogo.

Il visto per un omicidio

La circostanza più importante che riferisce il neocollaboratore, almeno a giudizio gli inquirenti, è in realtà un ragionamento bello e buono: D'Elia non avrebbe mai potuto autodeterminarsi a uccidere Ruffolo, nipote di un ergastolano, già esponente del vecchio clan Perna-Pranno. Per fare un omicidio del genere, rileva Greco, è sempre necessaria «un'autorizzazione» dall'alto. L'ultimo elemento di novità da lui apportato alla vicenda è un dialogo con la vittima avvenuto poco tempo prima dell'agguato che conferma il movente legato all'usura, attività che, si ritiene, Ruffolo esercitasse in piena autonomia. In quel caso, quest'ultimo gli avrebbe confidato di aver ricevuto la richiesta estorsiva da D'Elia che, a nome del clan di riferimento, pretendeva da lui una parte dei suoi guadagni illeciti. Per tutta risposta, Ruffolo lo avrebbe picchiato, innescando così la spirale di eventi che di lì a poco porteranno alla sua morte. Proprio alle sue dichiarazioni si affida in buona parte la Dda per ribaltare la narrazione giudiziaria della vicenda che, fin qui, si è imposta attraverso i processi. Per la morte di Ruffolo, infatti, è stato condannato solo D'Elia, con la sentenza d'appello, in particolare, che esclude la matrice mafiosa di quell'omicidio.

«Non hanno capito niente»

Da Giuseppe Zaffonte a Edyta Kopaczynska, passando per Luciano Impieri, Vincenzo De Rose e Daniele Lamanna, con l'aggiunta di Mattia Pulicanò, Ernesto Foggetti e Francesco Noblea, un tocco di Giuseppe Montemurro e il colpo finale di Ivan Barone e Francesco Greco. È un parla-parla davvero notevole quello che, in termini investigativi, fa da sfondo all'omicidio di Giuseppe Ruffolo. E c'è una cosa che accomuna tutti i pentiti di 'ndrangheta interpellati fin qui dalla Dda: si esprimono tutti per sentito dire. L'unico che aggiunge informazioni apprese in modo diretto è anche uno che pentito non è. O meglio, non lo è più. Danilo Turboli, infatti, riporta le mezze frasi che sostiene di aver sentito proprio da Roberto Porcaro, nel 2019, ai tempi della sua prima scarcerazione per il caso Ruffolo. In quel caso, il boss si sarebbe rallegrato con lui del fatto che era andato «tutto bene» anche perché, a suo dire, gli investigatori «non c'avevano capito niente». Dichiarazioni poi ritrattate da Turboli, la cui parabola esistenziale ricalca un po' quella del suo capo.

La versione del boss

Anche Porcaro, infatti, vanta trascorsi da meteora del pentitismo. Ha vestito questi panni per quattro mesi, nel 2023, salvo poi dire di essersi inventato tutto. Prima della ritrattazione, però, aveva parlato anche di Ruffolo, negando di avere avuto un ruolo nell'omicidio. Anzi, il contrario. Non a caso, Porcaro sostiene di aver tentato di frenare l'ardore di un Massimiliano D'Elia, determinato a uccidere. Afferma di aver provato a salvare la vittima designata, da lui conosciuta personalmente, e di essersi proposto anche come mediatore fra i due, nella speranza di scongiurarne la morte. Riferisce, inoltre - ed è il dato forse più convincente dell'intera testimonianza - della contrarietà mostrata da Francesco Patitucci dopo l'agguato per il fatto che lo stesso si fosse consumato a pochi metri dalla sua abitazione, all'epoca ubicata in via Fratelli Cervi. Tutt'altra cosa, insomma, rispetto a ciò che propone la schiera di pentiti, secondo i quali proprio lui si sarebbe poi vantato con Patitucci di essere stato l'ispiratore di quel crimine. Lo scontro con Impieri & co. abbraccia anche ciò che sarebbe avvenuto dopo l'omicidio. Porcaro, infatti, sostiene di aver allontanato dal suo gruppo D'Elia per quel suo atteggiamento da mina vagante, quasi tutti i collaboratori, invece, riferiscono che, all'interno dell'organizzazione, il sicario fosse cresciuto in termini di prestigio proprio per quella missione di morte eseguita con successo.