Quattordici anni fa le uccisero il padre, perché era il suocero di un pentito di ‘ndrangheta, ma la vendetta trasversale che le procurò quel dolore fin qui non è stata sufficiente a farla riconoscere come vittima di mafia.
La cittanovese Sonia Femia denuncia quella che definisce una doppia ingiustizia perché le indagini per l’omicidio del genitore non hanno portato ad alcun processo e, due settimane fa, la Corte d’Appello di Reggio Calabria le ha negato il diritto di accedere al Fondo nazionale ribaltando la sentenza di primo grado che, invece, aveva riconosciuto per lei, la madre e 3 fratelli lo status di vittima.

 

 

Storia di un dolore che Sonia racconta alle nostre telecamere, annunciando l’intenzione di ricorrere in Cassazione, ma anche di un dramma che all’epoca - per il suo tempismo efferato, a 3 mesi dal pentimento del cognato di Sonia - fece il giro anche delle testate nazionali. Un caso aggravato dalla recente sentenza che nega quello che sembrava un diritto acquisito perché, nel frattempo, una riforma della legislazione avrebbe reso obbligatoria la valutazione di informative delle forze dell’ordine che hanno segnalato il grado di affinità tra Sonia e un cugino di suo marito ucciso negli anni ’80.