Perfettamente compatibili con la detenzione fino a qualche mese fa, scarcerati e mandati a casa perché statisticamente a rischio in caso di contagio da Covid19. Sono 376 boss, capi e gregari dei clan che devono ringraziare la pandemia, perché dopo anni di detenzione sono finiti ai domiciliari.

I numeri delle scarcerazioni

Tre stavano al 41bis, gli altri nei reparti della cosiddetta “Alta sicurezza 3”, il circuito che ospita l’esercito di mafie e gang della droga. Sessantuno a Palermo, 67 a Napoli, 44 a Roma, 41 a Catanzaro, 38 a Milano, 16 a Torino, 16. I numeri li svela Salvo Palazzolo con un pezzo in esclusiva che finisce in prima pagina su Repubblica. E oltre alle cifre, ci sono anche alcuni nomi.

Il primo della lista

Fra chi ha strappato un biglietto per tornare a casa, ci sono pezzi da novanta della ‘ndrangheta calabrese. Per alcuni, la concessione dei domiciliari aveva fatto rumore. A partire dal primo, il boss di Lamezia Terme Vincenzino Iannazzo, 14 anni e mezzo di condanna in appello per associazione mafiosa e altro, finito ai domiciliari perché statisticamente annoverabile fra i soggetti a rischio a causa di alcune patologie che fino a qualche mese prima nessuno considerava impossibile curare in carcere. Ma a lui ne sono seguiti altri, usciti uno dopo l’altro nonostante i numeri forniti dal Garante dei detenuti nel regolare bollettino smentiscano una diffusione epidemica del Covid19 negli istituti di pena.

L’elenco dei detenuti di ‘ndrangheta tornati a casa

Eppure, a qualche settimana dalle rivolte che hanno segnato l’inizio del lockdown, boss, capi e gregari sono usciti. Nelle cinque pagine che sono servite per mettere in fila i nomi di chi in questo periodo ha strappato i domiciliari, c’è quello di Fabio Costantino, “manager” della famiglia Mancuso di Limbadi, di Rocco Filippone, imputato come mandante degli omicidi dei brigadieri Fava e Garofalo con cui la ‘ndrangheta ha firmato la propria partecipazione alla strategia stragista degli anni Novanta, del sequestratore di Alessandra Sgarella, Domenico Perre, 64 anni di cui 22 passati in carcere. E poi Marcello Muto, uno degli esattori del clan Grande Aracri.

Il caso Ventrici

Insieme a loro, strappa i domiciliari anche Francesco Ventrici, narcobroker della ‘ndrangheta di San Calogero, nel vibonese, punito definitivamente con 16 anni di carcere, di cui sei ancora da scontare, nell’inchiesta “Pigna d’oro” e con all’attivo una lunga serie di condanne in altri procedimenti per mafia e per droga non ancora arrivati in Cassazione. Ventisei anni in primo grado nell’operazione “Due Torri connection”, 20 in Stammer, che in appello la pubblica accusa ha chiesto di ridurre a 18 solo per effetto degli anni di custodia cautelare già scontati, più un sequestro milionario. A dicembre, la Cassazione aveva detto “no” all’istanza di scarcerazione per motivi di salute presentata dai suoi legali, affermando che le patologie croniche da cui il narcobroker è affetto non lo rendevano incompatibile con il carcere, dove era sottoposto a scrupolosa terapia e monitoraggio all’interno, dieta personalizzata e visite specialistiche all’esterno in caso di necessità. Poi è arrivato il coronavirus. E tutto è cambiato.

E quello di Rocco Filippone

Quando i fascicoli dei detenuti per mafia sono arrivati sul tavolo dei Tribunali di Sorveglianza o dei giudici di primo e secondo grado incaricati di gestire i processi in cui rimangono imputati, i magistrati non hanno potuto far altro che constatare l’assenza di un piano di trasferimenti predisposto dal Dap nei centri medici penitenziari, la mancanza di predisposizione di aree Covid19 in questi ultimi e/o il blocco dei ricoveri ordinari in piena pandemia. E mandare tutti ai domiciliari. È successo ad esempio nel caso di Rocco Filippone, ultrasettantenne boss di Melicucco per il quale la presidente della Corte d’Assise ha disposto – con poca convinzione, trapela dall’ordinanza – i domiciliari a casa della nuora nel torinese, dopo aver invano cercato una struttura sanitaria disponibile. Una settimana dopo, constata l’impossibilità di garantirgli assistenza sanitaria adeguata, è stato uno dei legali del boss a esclamare in udienza «ma allora meglio che stesse in carcere».

Le alternative impossibili per i magistrati

A “forzare la mano ai giudici” non solo l’assoluta mancanza di una strategia di gestione della pandemia in corso, ma forse anche quella circolare del 21 marzo con cui il Dap ha ordinato agli istituti di pena di censire i detenuti che per età o patologie erano da annoverare fra i soggetti a rischio, per poi trasmetterli «con solerzia» ai magistrati «per valutazioni di competenza». Valutazioni con spettro assai stretto, alla luce della mancanza di opzioni di detenzione sanitaria alternativa. E così i boss hanno iniziato a uscire. E non solo perché a sollecitarlo sono stati i legali.

Il Dap dispone e il carcere esegue

Per effetto di quella circolare, anche i direttori degli istituti di pena sono stati costretti a trasmettere ai tribunali di sorveglianza i casi dei detenuti considerabili “a rischio”. È successo anche per il superboss di Catania, Nitto Santapaola. È stato il carcere a sottoporre la sua situazione sanitaria ai giudici, che tuttavia in quell’occasione hanno messo nero su bianco che al 41bis, proprio per le condizioni di “quarantena naturale” che quello speciale regime di prevenzione prevede, non c’è alcun rischio di contagio. Ma non sempre e non ovunque le valutazioni sono state analoghe.

Lo scaricabarile di Basentini e lo stupore di Bonafede

La lunga processione di boss, capi e gregari finiti ai domiciliari però ha finito per far notizia, facendo saltare dalla sedia magistrati come Nino Di Matteo, Sebastiano Ardita, Nicola Gratteri, che si sono mostrati chiaramente indignati per quelle scarcerazioni. Ed è scoppiato il caso, con il direttore del Dap Basentini che mai ha chiarito se quella circolare sia stata inviata di iniziativa propria o su indicazione di qualcuno ed eventualmente di chi, ma pronto a scaricare la responsabilità sui giudici e il ministro Alfonso Bonafede intento a mostrarsi stupito, come se il Dap non dipendesse direttamente dal suo ufficio.

Il caso diventa politico

In Parlamento, il centrodestra è stato rapido ad imputare la cosa al Cura Italia, ben attento invece a escludere dalle scarcerazioni anticipate i condannati per mafia e gravi reato, e la maggioranza, pur respingendo le accuse, ha chiesto chiarezza sull'operato del Dap al suo ministro. Le carte iniziano a circolare, così i nomi dei boss usciti di cella. Sul tavolo della commissione parlamentare antimafia arriva quell’elenco di 376 mafiosi finiti ai domiciliari, mentre anche la Direzione Nazionale antimafia, per bocca del procuratore capo Federico Cafiero de Raho ha fatto sapere di non aver mai avuto notizia di quella circolare fino ad aprile.

Cambio al vertice al Dap

Diventa chiaro che il problema non è solo gestionale e non riguarda solo il Dap, ma anche via Arenula da cui dipende. Alle richieste di chiarimento però il ministro non risponde. Le valutazioni sono dei tribunali di sorveglianza, si limita a ripetere, mentre sembra quasi aver appreso dai giornali misure, circolari e provvedimenti adottati dal "suo" Dap. Da quelle parti si affretta a spedire Roberto Tartaglia, giovane magistrato formato alla scuola della procura di Palermo, negli anni del processo “Trattativa”. Quasi in calcio d’angolo, introduce per decreto la necessità di consultare Dna e Dda nel valutare eventuali trasferimenti ai domiciliari per detenuti di mafia. Ma non basta a placare le polemiche. La testa di Basentini cade, per dimissioni da lui stesso rassegnate, che Bonafede si affretta ad accettare, per poi nominare a strettissimo giro l’ormai ex procuratore generale di Reggio Calabria, Dino Petralia.

Le rivelazioni di Di Matteo

La bufera però non cala. Perché dopo le dimissioni di Basentini, il consigliere del Csm Nino Di Matteo svela che due anni fa il ministro Bonafede aveva offerto proprio a lui quel ruolo, salvo poi rimangiarsi la proposta nel giro di 24 ore. «Era lunedì, il 18 giugno – ricostruisce Di Matteo - Mi pose l’alternativa, andare a dirigere il Dap oppure prendere il posto di capo degli Affari penali. Aggiunse che dovevo decidere subito perché mercoledì ci sarebbe stato l’ultimo plenum utile del Csm per presentare la richiesta di fuori ruolo. Richiesta che era urgente per il Dap, ma non lo era per la direzione degli Affari penali». E poi ricorda come in quel periodo, l’ipotesi di un suo arrivo al Dipartimento avesse messo in allarme i detenuti di mafia nelle carceri, che – ben attenti a farsi sentire – avevano mostrato di non gradire per nulla la cosa. Intercettazioni di cui tanto Di Matteo, come Bonafede erano a conoscenza.

Cambio di rotta

È in quel contesto che si inserisce l’irrituale proposta di Bonafede. Il posto al Dag – ufficio che fu di Giovanni Falcone, ma oggi è straordinariamente meno incisivo di allora - non sarebbe stato disponibile per mesi, i due ruoli sono profondamente diversi, così come diverse sono le responsabilità che comportano. Peccato che 24 ore dopo, quando Di Matteo si presenta per accettare la proposta di guidare il Dap, il posto non sia più disponibile, perché già proposto a Basentini. Neanche fosse una partita di calcetto. «Un equivoco, un errore di comunicazione» si ostina a dire Bonafede. Ma non spiega le motivazioni per cui alla fine abbia scelto un magistrato dal profilo tanto diverso e come mai lo abbia fatto così rapidamente, non chiarisce se quella decisione sia stata presa in autonomia o sia stata oggetto di discussione e confronto all’interno del governo giallo-verde.

Nuovo decreto in arrivo, ma potrebbe non bastare

La Lega adesso si mostra stupita nonostante all’epoca sedesse con i suoi ministri nello stesso esecutivo di Bonafede, di cui ora chiede la testa. Fratelli d’Italia si indigna, nonostante ostenti il record di amministratori arrestati per mafia negli ultimi mesi. E persino Forza Italia sale sugli scudi, per poi finire ad attaccare Di Matteo, il magistrato che ha “osato” indagare sulle relazioni pericolose tra Stato e mafia, finendo per lambire i padri fondatori del partito, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, in altro processo condannato definitivamente per concorso esterno. Ma Bonafede continua a non spiegare. Troppi silenzi, al pari di quelli sull’operato del Dap negli ultimi mesi, sulle rivolte, sulle scarcerazioni. Annuncia un decreto per rimandare i boss scarcerati in cella. Una pezza forse troppo piccola per rattoppare gli strappi degli ultimi mesi.