Medici ammazzati e assunzioni a chiamata, appalti agli amici degli amici e spese fuori controllo, pluricommissariamenti e infiltrazioni asfissianti: la storia della sanità calabrese si lega a doppio filo con quella del crimine organizzato, in uno sfacelo lungo cinquanta anni che ha portato la qualità del sistema di assistenza regionale a distanze siderali dai livelli erogati nel resto del paese.

«Non posso che confermare che, non da adesso ma da parecchi anni a questa parte, nella sanità calabrese è stata presente (e per certi versi lo è a tutto oggi) la ‘ndrangheta. Non si può omettere di riferire ciò, né limitarlo a dei casi occasionali». Così, davanti alla Commissione parlamentare antimafia che ha reso pubblica la relazione conclusiva della scorsa legislatura poche settimane fa, aveva risposto l’allora commissario del Governo per la sanità in Calabria, Guido Longo.

Dichiarazioni che non possono fare altro che confermare lo strapotere che le ‘ndrine negli anni hanno saputo esercitare – spesso a braccetto con la politica – sul settore sanitario che, da solo, pesa per oltre il 70% sul totale del bilancio regionale.

In principi furono Locri e Taurianova

In principio furono Locri e Taurianova, sciolte con decreto di Francesco Cossiga prima ancora che esistesse una legge sullo scioglimento degli enti infiltrati dalle mafie. Era il 1987, e le anomalie attorno alle due Usl, la 27 e la 28, erano diventate così macroscopiche da giustificare un provvedimento adottato su un regio decreto del 1915. A Locri addirittura la Procura, appena due mesi prima, aveva ottenuto l’arresto dell’allora presidente dell’Unita sanitaria locale, Marando – che era anche sindaco di Platì – del presidente del comitato di gestione della stessa Usl, Bruno Napoli – all’epoca consigliere regionale ed ex assessore in quota Dc oltre che braccio destro di Ludovico Ligato – e di Renato Nicolò, fratello dell’allora segretario regionale ed ex assessore democristiano, Giuseppe.

Le assunzioni clientelari

Accusati di peculato, interesse privato in atti d’ufficio e truffa – il processo si risolse anni dopo in una bolla di sapone – quell’inchiesta si sommava a numerosi altri fascicoli che ipotizzavano interessi mafiosi, disfunzioni amministrative e assunzioni clientelari che pescavano tra gli underdogs delle cosche. «Il condizionamento mafioso – si legge nel decreto – si è intrinsecato, oltre che con atti di violenza intimidatoria nei confronti di persone interessate alla gestione delle Usl o comunque orientate a denunziare le disfunzioni amministrative, anche nello svolgimento dell’attività amministrativa e per le stesse assunzioni dell’ente, condizionate dall’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso».

Le assunzioni clientelari che pescavano anche nel mondo della criminalità della Piana erano poi il fiore all’occhiello dell’Usl di Taurianova, sciolta lo stesso giorno di quella di Locri. Ostaggio per anni di Francesco Macrì, aka Ciccio Mazzetta, professore di francese e presidente di un ente con bilanci da 50 miliardi e 1200 dipendenti, nella Usl 27 «i provvedimenti in materia di fornitura, di acquisti, di assunzioni e carriera del personale sono stati adottati con la violazione di ogni procedura amministrativa, con la persistente trasgressione delle norme». Pluri indagato, più volte condannato, latitante per oltre un anno dopo le sentenze definitive, Macrì fu arrestato nel 1993 in una villetta a Riace in seguito ad un controverso blitz dei carabinieri di Catanzaro.

L’omicidio Fortugno

Il decreto di scioglimento dell’Usl di Locri aveva evidenziato come l’azienda fosse ormai ostaggio del crimine organizzato, ma la situazione nei palazzi di contrada Verga non era cambiata di molto quando, 18 anni dopo, nell’ottobre del 2005, viene ammazzato con cinque colpi di pistola Franco Fortugno, primario in aspettativa del pronto soccorso dell’ospedale cittadino e vice presidente del consiglio regionale in carica.

Fortugno, che da tempo aveva denunciato il marcio all’interno dell’ente, nel frattempo rinominato Asl 9, fu ucciso durante le primarie dell’Ulivo, immediatamente fuori dal seggio di palazzo Nieddu del Rio. A Sparare, Salvatore Ritorto, picciotto nell’orbita della cosca Cordì, che quell’omicidio così eclatante lo aveva portato a termine su disposizione di Alessandro Marcianò, che nell’ospedale di Locri svolgeva la funzione di caposala. Un omicidio clamoroso maturato tra ‘ndrangheta e politica: le indagini bollarono i Marcianò come grandi elettori di Mimmo Crea, primo dei non eletti in consiglio regionale e subentrato proprio a Fortugno a palazzo Campanella. Mimmo Crea fu a sua volta arrestato nel gennaio del 2008 nell’ambito dell’inchiesta Onorata sanità che scoperchiò gli affari delle cosche e del politico per il ricchissimo accreditamento di una sua struttura privata al sistema sanitario regionale. Fu il prefetto Paola Basilone a certificare, nella relazione di scioglimento del 2006, il pantano mafioso in cui era precipitato l’ente.

Medici giustiziati

Un pantano in cui rimasero invischiati anche due medici, giustiziati dai boss perché accusati di non avere salvato due loro parenti. Nel 1988 era stato ucciso Girolamo Marino, aiuto chirurgo in ospedale, freddato fuori dai cancelli da Antonio Giampaolo, boss di San Luca all’epoca latitante e con un passato pesante nella stagione dei sequestri di persona, che accusava il medico di essere responsabile della morte della figlia di quattro anni. La stessa sorte toccata a Domenico Pandolfo, primario di neurochirurgia a Reggio con consulenze a Locri, giustiziato nel 1993 a una manciata di metri dall’ingresso del nosocomio locrese. Per quell’omicidio fu arrestato Cosimo Crodì, pezzo grosso del clan locrese e padre di una bambina che Pandolfo non era riuscito a salvare da un tumore cerebrale.

Il doppio scioglimento di Reggio

E se la provincia piange, neanche il capoluogo, nel corso degli anni, si è fatto mancare nulla. Sono due i provvedimenti di scioglimento per infiltrazioni mafiose disposte nei confronti dell’ente reggino. La prima, datata marzo 2008, segue di un paio d’anni l’analogo provvedimento registrato a Locri: all’interno dell’Asp numero 5 – che all’epoca, in seguito all’ennesima riorganizzazione del sistema regionale, aveva riunito assieme le vecchie Asl di Palmi e di Reggio – i commissari prefettizi certificarono «la presenza condizionante di personaggi che costituiscono dei veri e propri cavalli di troia della criminalità organizzata all’interno della struttura socio sanitaria», sottolineando le gravi inadempienze amministrative che erano diventate ormai routine. Uno sfascio che, poco più di dieci anni dopo, siamo nel marzo del 2019, si ripropone recitando un copione molto simile al precedente. «Le attività investigative – scrivono i commissari nella relazione di scioglimento dell’Asp – hanno messo in evidenza come la penetrazione delle predette organizzazioni criminali, sia stata resa possibile dalla presenza di soggetti che hanno messo a disposizione delle cosche di riferimento il ruolo istituzionale ricoperto, in un’ottica di totale asservimento della funzione pubblica». Un caos di malaffare e disorganizzazione costruito sulle spalle della cittadinanza reggina, per un’azienda in cui, scrivevano ancora i commissari «la gestione del personale è apparsa “assolutamente fuori controllo”» tanto che «l’attuale condizione non consente all’azienda di avere contezza delle mansioni attribuite a ciascun dipendente, dell’effettiva attività svolta, della identificazione del posto in organico e della figura professionale che la ricopre».