Il ricatto ai danni del titolare di un supermercato ed il pizzo pagato come fosse un buono spesa. Gli equilibri fra le cosche dopo il ritorno dell'uomo dal carcere (ASCOLTA L'AUDIO)
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«No, Mico. Le cose le devo fare io! Altrimenti non c’è niente per nessuno, neanche per Dio!». Filippo Barreca aveva deciso che il territorio di Pellaro e Bocale sarebbe dovuto tornare sotto il suo diretto controllo. A poco contava la presenza di una cosca potente come quella dei Ficara-Latella sullo stesso quartiere. Barreca rivendicava di essere parte di quel clan che negli anni ’80 governava le sorti della periferia a sud di Reggio Calabria. E lo voleva fare attraverso un sistema capillare di estorsioni che comportava l’imposizione del pizzo anche a coloro che già pagavano ad altre famiglie di ‘Ndrangheta. Barreca dimostrava una spiccata arroganza criminale, appunta il gip, con la volontà di gestire in via esclusiva le estorsioni. Come accaduto ai danni di un imprenditore che gestiva un supermercato a Pellaro.
«Il suo approccio – spiega il giudice – era garbato, ma fermo, nella assoluta consapevolezza che avrebbe dovuto far valere la propria auctoritas mafiosa e al contempo non creare frizioni o contrasti con le famiglie alleate. Era mancato da troppo tempo da quel territorio, insieme ai di lui fratelli a cagione della lunga carcerazione ed intendeva, dunque, far valere la propria voce nelle spartizioni e nel comando dentro i confini territoriali di spettanza».
Il colloquio con gli esponenti dei De Stefano
Barreca sapeva di doversi confrontare con chi già era presente sul territorio. Ed in questo caso si trattava della cosca De Stefano, la quale aveva dato origine all’estorsione ai danni dell’imprenditore. Barreca si confrontava con i suoi luogotenenti fidati Domenico Calabrò e Marcello Bellini. L’obiettivo era quello di far mettere da parte la cosca Ficara-Latella (lo racconta anche il pentito De Carlo, per essere stato direttamente coinvolto) e far confluire a loro i proventi dell’estorsione. A nome dei De Stefano, c’era Giovambattista Fracapane, quale emissario di Carmine De Stefano. La richiesta da Archi era chiara: «Mi ha detto Carmine di questo fatto… si trovano in difficoltà se può… No, dice, siccome ha problemi una piccola carezza (…) Ha detto apposta di tremila, forse di manda duemila». Barreca, che come abbiamo visto aveva avuto una posizione rigida a tal punto da dire che lì non ci sarebbe stato niente neanche per Dio, fa un’eccezione per i De Stefano: «Noooo a me me lo deve dire, no… è lui! Decide lui! Decide Carmine ora questo qua eravamo rimasti noi… Gli devi dire che per il fatto di omissis di fare lui, lui l’ha aggiustata voglio dire, non è che l’ho aggiustata io». Insomma, Barreca non voleva discussioni con i De Stefano.
L’accordo estorsivo
Ma cosa prevedeva l’accordo estorsivo? L’imprenditore avrebbe versato la somma di 500 euro al mese – di più non avrebbe potuto, come si evince dalle intercettazioni – una somma comunque maggiore di quella prima riscossa dalla cosca Ficara-Latella. Ma non solo vi era un extra. Ossia due tranche pari a duemila euro ciascuna, nei mesi di luglio e novembre. Le modalità di consumazione dell’estorsione erano davvero singolari: l’imprenditore vittima aveva predisposto un bigliettino apposito che era stato dato in mano all’estorsione, il quale si sarebbe dovuto recare alla cassa del supermercato con in mano quel biglietto. Allora avrebbe potuto riscuotere direttamente la somma pattuita. Una sorta di “buono” che l’imprenditore elargiva alla consorteria ‘ndranghetistica. Insomma, l’estorsione si sarebbe potuto recare tranquillamente al supermercato, come se stesse facendo una normale spesa con la famiglia. Con un finale che lascia abbastanza perplessi. La vittima si mostra accondiscendente e garbata, tanto da ricevere gli elogi di Calabrò, uno dei collaboratori di Barreca: «Ti sto dicendo: la persona più garbata che ho potuto parlare fino ad ora».
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