L’autobomba di Limbadi, che ha ucciso in un viottolo di campagna Matteo Vinci, sembra non aver fatto abbastanza rumore. Neppure un fiore è stato posto in quel tratto bruciacchiato di asfalto, nessun politico è arrivato nel feudo della cosca più potente del Vibonese, quella dei Mancuso. Nessuna fiaccolata ha ancora percorso le strade di quel paesino che secondo Wikipedia conta appena 3.641 anime. Chissà se qualcuno ha ritoccato la cifra di una unità, perché da lunedì scorso manca all’appello Matteo, biologo quarantaduenne, fidanzato con Laura. Sognavano di sposarsi. Invece niente. Perché qualcuno ha premuto il tasto di un telecomando e ha fatto esplodere la bomba che aveva sistemato nel bagagliaio della Ford Fiesta sulla quale era a bordo con il padre, Francesco. Gravemente ferito e ustionato su tutto il corpo, il genitore settantenne ha cercato di salvare il figlio, di tirarlo fuori da quell’inferno di fuoco e lamiere roventi, ma senza riuscirci.

 

Il lavoro sporco è stato fatto da un ordigno comandato a distanza. I carabinieri ne sono sicuri. Come con Falcone. Come con Borsellino. La morte dispensata nel modo più eclatante. Una sfida arrogante, lanciata nei giorni della mobilitazione delle Questure per il 166° anniversario della fondazione della Polizia di Stato. Con le piazze d’armi piene di donne e uomini in divisa a fare le prove per la parata del giorno dopo. Con le sciabole e le fasce azzurre da ufficiali, con le camionette e le mostrine. Mentre in un isolato viottolo di campagna un uomo moriva perché qualcuno, al riparo dei canneti, schiacciava un pulsante.

 

Ma perché una bomba? Perché non limitarsi al solito copione dell’agguato a colpi di kalashnikov o fucile a canne mozze? Su quella strada stretta e isolata sarebbe stato facile e sicuro. Invece si è scelto di fare rumore. Tanto rumore. Che è echeggiato sulla stampa nazionale, da Aosta a Lampedusa, ma che sembra non aver scosso a sufficienza la Calabria. Solo una serie di comunicati ufficiali, di note stampa con le solite parole di circostanza diramate via mail da parlamentari e consiglieri regionali.

 

E invece c’era da venire qui, da scendere in strada, da invadere Limbadi e organizzare presidi permanenti. Dove sono il presidente della Regione, il presidente della Provincia di Vibo Valentia, i presidenti delle commissioni, i sindaci del circondario? Dove sono i cittadini, le associazioni, le scuole? Dov’è la Calabria, quella “sana”, come si dice in questi casi? In questo silenzio irreale risuonano come boati le parole della mamma di Matteo, Rosaria Scarpulla, che ha chiesto funerali di Stato. «Un figlio dell’Italia», così lo ha definito nell’intervista concessa a Cristina Iannuzzi per il nostro network.

 

Perché sia morto in quel modo barbaro l’accerterà (forse) la magistratura. Per ora, quello che si sa sarebbe bastato e avanzato perché un’intera regione si mobilitasse. Non tanto in memoria della vittima, magari non ancora, non subito. Ma almeno per dire forte e chiaro al Paese che ci guardava dai Tg nazionali, che qui giù esiste anche un’altra Calabria. Se solo trovasse la voce per farsi sentire.


Enrico De Girolamo