Movida (e non solo) nel mirino delle cosche. Il riciclaggio del denaro passa anche attraverso la ricerca di prestanome a cui intestare market e panetterie: i clan calabresi conquistano la Lombardia. Ecco dove arrivano i tentacoli della piovra economica
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Il 5 dicembre 2009 Gaetano Fidanzati viene arrestato in via Marghera, nel pieno centro di Milano. È l’ultimo boss rimasto a piede libero della generazione di Riina e Provenzano: il suo nome compare in grosse inchieste antidroga e nei dossier della Dea americana. Meno di due anni dopo viene arrestato anche suo figlio: è accusato di riciclare i proventi del narcotraffico in esercizi commerciali della movida milanese. Finiscono sotto sequestro quote aziendali per un valore di 15 milioni di euro, un terremoto per i più importanti locali cittadini. I numeri sembrano dire che a Milano comanda Cosa nostra.
Aprile 2024: la Dda meneghina sequestra una serie di locali in mano alla ’ndrangheta. Il settore è lo stesso ma i padroni della movida sono cambiati: non più siciliani ma calabresi. Il cuore dell’inchiesta è il Mercato comunale dell’Isola. Scattano sigilli in quattro locali: il bistrot Glory, il ristorante pescheria Piscarius, il ristorante Masseria e il pub Sciambola.
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Per i magistrati il piano del gruppo legato al clan Piromalli è quello di investire nella vita notturna del capoluogo lombardo. I casi si ripetono, uno dopo l’altro, da corso Como a via Borsieri, mentre gli inquirenti tracciano i contorni di quello che ritengono il volto economico del clan, l’imprenditore Agostino Cappellaccio, entrato nel Mercato inaugurato in pompa magna due anni fa. Il modello di business su cui puntano gli imprenditori arriva dalla Spagna, dove i market diventano ristoranti sotto il tetto della stessa maxi struttura: il tocco tradizionale del mercato rionale al chiuso incontra i gusti gourmand. Si vendono portate e prodotti alimentari. E funziona. Lo si capisce anche dalle intercettazioni finite nell’inchiesta Royale: la pescheria, dal primo ottobre fino al 5 aprile scorso, quindi «in sei mesi», ha fatturato «246mila euro!!!», dice Cappellaccio, che, secondo i pm antimafia, ha «un profilo reddituale del tutto incoerente con i massicci investimenti per la progressiva costituzione delle società sequestrate.
(Anche) i supermercati nell’orbita dei clan calabresi
Le indagini non sono finite: nel mirino della Dda meneghina ci sono altre srl e il nuovo terremoto sulla movida potrebbe essere parte di uno sciame sismico più vasto. Quanto sia infiltrato il settore lo chiarisce anche una recente dichiarazione di Nicola Gratteri, procuratore di Napoli ed ex capo della Dda di Catanzaro. Un’iperbole, in effetti, che ha fatto rapidamente il giro d’Italia: «Oggi noi abbiamo tutti i supermercati nella cintura milanese che sono in mano alla ‘ndrangheta della Jonica. Tutti i locali pubblici di divertimento, del centro di Milano, dove vanno calciatori e attori, sono in mano alla ’ndrangheta».
In realtà il riferimento «non era a tutte le attività presenti nel Milanese ma al fatto che i clan, con le loro sterminate possibilità economiche abbiano in questi ultimi anni investito anche in queste aziende nel territorio milanese». Non solo locali notturni, ma anche supermercati finiscono nell’orbita dei clan calabresi trapiantati al Nord.
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Le mani della ’ndrangheta su panetterie e market
Ancora dall’inchiesta Royale emerge l’interesse degli uomini legati alla ’ndrangheta per l’acquisto di una panetteria-minimarket di Cadorago in Brianza, un minimarket nell’area di Torino, un’altra attività in provincia di Monza e Brianza e una nel Comasco. Presìdi territoriali che il clan avrebbe sfruttato per riciclare i profitti delle proprie attività illegali. È un altro dei grandi temi: le cosche calabresi hanno così tanti soldi da dover diversificare le attività per ripulire quanti più milioni possibile. L’ordine di «comprare tutto» partito dalla Calabria in occasione della caduta del Muro di Berlino si è ripetuto decine di volte sul territorio nazionale.
La lectio di Palermo in cui Gratteri ha rilanciato l’allarme (nel convegno “Le rotte e le logiche del traffico internazionale di stupefacenti e le evoluzioni della criminalità organizzata transnazionale”) ha ripercorso le tappe chiave di una scalata economico-finanziaria iniziata «nel '69 quando in un santuario di San Luca si decise la doppia affiliazione: stabilendo che un capo 'ndrangheta poteva entrare nelle logge massoniche deviate. All'interno delle logge c'erano magistrati, esponenti delle forze dell'ordine, delle istituzioni e ciò ovviamente favorì certi rapporti e fece fare un passo avanti alle 'ndrine. Per anni abbiamo continuato a parlare di 'ndrangheta stracciona, sottovalutando questo fatto — ha spiegato Gratteri —. Coi soldi dei sequestri di persona poi la 'ndrangheta ha deciso di investire nel narcotraffico. Negli anni 90 ci fu una forte richiesta di cocaina, allora la 'ndrangheta mandò in Colombia decine di broker a comprare la droga a prezzi più bassi».
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La costante ricerca di prestanome in Lombardia
Vale ancora il precetto di Giovanni Falcone: seguire il denaro per capire dove vanno le mafie e chi le spalleggia. La ricerca di prestanome è una delle attività collaterali dei clan. Salvatore Giacobbe, considerato dai pm il capo del gruppo legato ai Piromalli, ne utilizza diversi per eludere le misure di prevenzione patrimoniale. La confisca irrevocabile disposta dal Tribunale di Milano nel 2015 lo costringe a industriarsi: così trova teste di legno a Rovello Porro, piccolo comune di 6mila abitanti in provincia di Como; Caslino al Piano; Parabiago, Meda, Torino.
Non tutte le presunte acquisizioni servono a generare grossi profitti. Nel caso del minimarket “Bottega del fresco”, il precedente proprietario abbandona la gestione del locale in cambio di una somma di denaro.
Il supermarket spolpato dal clan annega nei debiti
Quel punto vendita, secondo l’accusa, viene sfruttato, «tra le altre cose, per farci lavorare, anche a nero, alcuni membri della famiglia Giacobbe e, soprattutto, per prelevarvi – ovviamente gratis – scorte illimitate di cibo, bevande e tutto quanto fosse utile ai membri del gruppo». Niente speculazioni finanziarie, a volte il clan si muove per questioni spicce: il locale, «come ovvio, ben presto veniva fagocitato dai debiti contratti con i fornitori, creditori insoddisfatti i quali, tramite decreti ingiuntivi e altre azioni giudiziarie, cominciavano a eseguire pignoramenti mobiliari». Dopo aver spolpato il market, il gruppo decide «di abbandonarlo al suo destino, non prima di averlo definitivamente svuotato di tutte le sue derrate, distribuite tra familiari e sodali in genere» per poi «dirottare le sue mire verso un ulteriore negozio di alimentari» che farà la stessa inesorabile fine. Spolpare le attività per riciclare o, semplicemente, per fare i propri interessi. Come vedremo, gli esempi del genere non mancano. Nel nome del denaro la ’ndrangheta è pronta a calpestare l’economia sana.