Le esequie del Papa hanno confermato la centralità della capitale italiana e del Vaticano in Occidente. I potenti della Terra, chi decide chi vive e chi muore, in piazza con quelli che aspettano con ansia la prossima bolletta della luce. E sullo sfondo la Città eterna dove tutto passa da millenni
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La storia vissuta in presa diretta. Vista, masticata e ripostata sui social, magari con un selfie col morto. I funerali di papa Francesco hanno offerto per un attimo una presa stabile in un’epoca disorientata dalla sua incapacità di riflettere, costretta a passare da un appiglio all’altro come uno scalatore che non vede la vetta ma sa che deve continuare a salire. Tutto va condiviso. Ora, subito. Tutto va commentato. Ora, subito, che domani già non se ne ricorda più nessuno. Ma la morte di Bergoglio, improvvisa, teatrale, continuata con la Pasqua di resurrezione, ci dà un motivo per fermarci a pensare. Finalmente.
Roma, bellissima, aperta, eterna davvero, ha accolto questo evento dimostrando ancora una volta che la Grande bellezza non è l’invenzione di uno sceneggiatore, ma un fatto incontrovertibile. Solo a Roma, santa e dannata, solo intorno al suo centro di gravità permanente può ruotare quello che è successo oggi. Non c’è sulla Terra un set all’altezza degli eventi che sono rimbalzati sulle tv e sui cellulari di tutto il globo.
Secondo le prime stime c’erano 400mila persone, 250mila in piazza e lungo via della Conciliazione, le altre assiepate sul percorso del corteo funebre. I potenti del mondo e gli ultimi, tutti nello steso luogo, tutti lì per lo stesso motivo: la morte di un sovrano assoluto. Quelli che decidono chi muore e chi vive insieme a chi trema quando arriva la nuova bolletta della luce. Tutti sul sagrato di San Pietro per onorare Francesco. Amato e odiato. Esaltato dai laici che in chiesa magari ci vanno solo a Natale, se ci vanno trascinati dalle consuetudini, e deprecato da chi in chiesa ci va tutti i giorni.
E c’era lui, Francesco, in una bara che sembrava trasparente mentre Trump e Zelensky si sono seduti uno di fronte all’altro, con i corpi protesi, occhi negli occhi, a discutere della fine della guerra in Ucraina. Il primo incontro dopo il 28 febbraio, quando il leader ucraino fu accolto alla Casa Banca e trattato dal presidente Usa come un giardiniere messicano che minacciava di rimpatriare. Oggi, invece, su due sedie di velluto rosso poste al centro del massimo tempio della Cristianità, il clima era diverso, autentico come i marmi sotto i loro piedi. In una parola, “romano”.
Francesco, chiuso con le sue scarpe consunte e il rogito in una bara riscaldata dal sole di aprile, sembrava guardare quello che avveniva nella Basilica. Se son fiori di pace fioriranno. Per ora non resta che prendere atto della centralità in Occidente di Roma, decadente quanto si vuole, ma ancora Roma. Oggi ancora Caput mundi, rimbalzata nell’immaginario collettivo di un’Umanità logorata da un presente senza ideologie e punti di riferimento, minata dalla fragilità secolarizzata di un reel da scrollare su Tik Tok per passare oltre. E invece, la Grande bellezza si è ancora una volta mostrata al mondo, con la papamobile trasformata in carro funebre che ha percorso i sei chilometri che separano San Pietro da Santa Maria Maggiore, con il Colosseo sullo sfondo. Roma, Italia. Insomma noi, nonostante tutto.