La cocaina, quand’era buona, veniva chiamata «Versace». Se buonissima, però, diventava «Gucci». Sono alcuni dei nomi in codice che gli indagati utilizzavano per dissimulare il contenuto dei pacchi “stupefacenti” introdotti all’interno del carcere di Catanzaro. A sovrintendere a quel traffico, c’era una regia tutta cosentina: Bruno Bartolomeo e Gino Garofalo da un lato, Riccardo Gaglianese dall’altro e Pierpaolo Tormento nel mezzo.

Sono questi i presunti promotori del gruppo criminale finito oggi nella rete della Dda. Due di loro, Gaglianese e Tormento, agivano direttamente da dietro le sbarre; Bartolomeo dai domiciliari. Lo facevano grazie ai telefonini introdotti all’interno della struttura di Siano, seconda gamba del business messo in piedi con la complicità di diversi loro familiari, di alcuni agenti della penitenziaria e, si sospetta, addirittura con il consenso tacito dell’ex direttrice.

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A scompaginare il piano ci hanno pensato, come al solito, le intercettazioni associate ai sequestri dei microcellulari in uso ai detenuti, ritrovamenti che hanno consentito di dimostrare come gli stessi, seppur ristretti, comunicassero in tranquillità con l’esterno. Emblematica, tra le tante, è una delle captazioni che coinvolge Tormento. Quest’ultimo, il 21 settembre del 2022, chiama direttamente dalla cella il proprio fornitore. Usa un’applicazione per distorcere il proprio tono di voce, ma l’interlocutore si rivolge a lui come «Pierpaolo», circostanza che gli stimola un sussulto di cosentinità: «Non facciamo nomi».

Tormento gli chiede se ha abbastanza droga da inviargli e quell’altro replica con motto sicuro: «Ne ho una quantità industriale». Di quale sostanza stanno parlando? «Biancaneve e i sette nani» l’aveva definita poco prima il detenuto, rimandando quasi certamente alla coca.

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A quel tempo, il traffico era ripreso dopo il brusco stop registrato un mese prima, il 17 agosto. Quel giorno, infatti, i carabinieri arrestano Francesco Tormento, il papà di Pierpaolo, un attimo prima che lo stesso varchi la soglia del carcere per svolgere un colloquio con suo figlio. Dalla sua auto, ferma nel parcheggio di Siano, saltano fuori otto telefoni, cento grammi di hashish e undici di cocaina: è il contenuto dell’ennesimo pacco che avrebbe dovuto recapitare al congiunto.

Non è un ritrovamento casuale. A quella data, i militari dell’Arma hanno già chiuso il cerchio attorno all’organizzazione e già da tempo stanno addosso pure a lui. Non a caso, una settimana prima lo sentono dolersi al telefono dei rischi a cui va incontro con il suo ruolo di corriere. Uno su tutti: quello di saltare in aria. Va da sé, in senso figurato. «Stamattina sembravo una mina» afferma al telefono dopo aver eseguito una delle sue consegne. «Se là dentro mi aprono – mi perquisiscono, ndr – mi rovinano. Perdo il lavoro, perdo tutto».