Nelle motivazioni della sentenza d’appello Stige, le ragioni della Corte che ha inflitto sette anni per concorso esterno al titolare di un'azienda vitivinicola. Assolto invece Valentino Zito, titolare di un'altra cantina del Crotonese: «Non aveva un ruolo nella commercializzazione»
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Uno avrebbe creato un rapporto d’affari, un do ut des, con la cosca per favorire la vendita e l’esportazione di un vino altrimenti di scarsa qualità. L’altro avrebbe prodotto per il clan due etichette «peraltro rimaste quasi per intero non pagate» senza avere alcun interesse o guadagno dalla successiva vendita del prodotto.
Due imprenditori del Cirotano, due posizioni valutate in maniera diametralmente opposta dalla Corte d’Appello di Catanzaro che lo scorso 10 novembre ha condannato l’imprenditore Pasquale Malena a sette anni di reclusione (ne aveva avuti 12 e 9 mesi in primo grado) e ha assolto l’imprenditore Valentino Zito (condannato a 12 anni in primo grado).
«L’imposizione del vino con modalità intimidatorie»
Nel motivare le proprie decisioni il collegio – Antonio Giglio presidente, Maria Rosaria Di Girolamo e Carlo Fontanazza a latere – ha sottolineato come le dichiarazioni del collaboratore Francesco Farao sull’imprenditore «sono riscontrate dall’abbondante mole di elementi», comprese numerose intercettazioni, che avrebbero «disvelato l’imposizione del vino in Germania con modalità intimidatorie ad opera del gruppo facente capo a Vittorio Farao e Vincenzo Farao».
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«Pasquale Malena pieno di debiti, si era affidato ai Farao»
Il collaboratore di giustizia Francesco Farao, figlio del boss condannato all’ergastolo Giuseppe Farao, ha raccontato che «il fratello Vincenzo era coinvolto con il cugino Vittorio Farao e con Francesco Basta (condannato nel procedimento definito con giudizio abbreviato) nell’esportazione in Germania del vino della cantina e di altri prodotti tipici, con le medesime modalità estorsive».
Francesco Farao racconta che Pasquale Malena «non aveva credito sia in paese, sia con le aziende, perché era pieno di debiti, era un fatto che sapevamo, me lo spiegava pure mio fratello e mio cugino, che non è che era messo tanto bene a livello economico e lui per esportare il vino e per fare cassa, dopo averlo proposto a me, si era affidato a Vittorio Farao di Silvio, a mio fratello Vincenzo e a Castellano; in proposito la pensavo diversamente, loro non è che erano commercianti, quindi era pure un business esportare vino e andavano dai vari clienti ma non era di buona qualità. Ho saputo questo, perché quando andavo in macelleria da mio fratello Vincenzo mi diceva spesso che era partito in Germania per esportare il vino di Pasquale Malena (da non confondersi con i vini dell'Azienda di Francesco Malena, completamente estranea all'indagine, ndr), però ora non lo so che accordi a livello di percentuale avevano, però loro andavano in Germania, facevano gli ordini e poi gli spediva il vino».
I giudici affermano che le «dichiarazioni di Francesco Farao sono riscontrate dalle intercettazioni».
Ci sono i colloqui in carcere col padre Giuseppe Farao, nel corso dei quali Vincenzo Faro informa il genitore sull’andamento degli affari e sulla spartizione dei proventi della “bacinella” – «abbiamo guadagnato bei soldi» – mentre il boss detenuto ribadisce più volte al figlio l’invito a prestare attenzione.
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Il magazzino in Germania «base logistica del gruppo»
L’attività si sarebbe sviluppata al tal punto che, nel marzo 2014, Francesco Basta trasferisce la residenza in Germania e prende in affitto un magazzino per avviare un’attività import-export mediante la ditta Vin.Fra(acronimo di Vincenzo e Francesco) gestita insieme a Vincenzo Farao. «Dalle intercettazioni – scrive la corte – emerge che il magazzino fungeva da base logistica dell’intero gruppo e non solo di Basta e Farao Vincenzo…».
Le rimostranze (inutili) dei ristoratori
Il vino di però non soddisfaceva i ristoratori tanto che questi avevano tentato delle rimostranze con i Farao, suscitando l’ira di Vincenzo Farao che intima al cugino Vittorio di andare da Pasquale Malena «e digli che il vino fa schifo a tutte le parti! L’ho sentito con le mie orecchie, tutti quanti che si lamentano con questo ca**o di vino». Allo stesso tempo, da altre intercettazioni, si evince «l’imposizione del vino in Germania con modalità intimidatorie».
Così nei confronti di un ristoratore che di vino non ne voleva più, i sodali commentano che il tipo non ha altra scelta se non quella di tenere il vino e provare a rivenderlo: «E mi sa che gli conviene venderlo questo vino... non ha capito niente Cenzo... speriamo che lo vende, sennò...se lo vende lo stesso …o lo vende o lo vende».
L’unico intento degli accoscati «è sempre stato quello di fare in modo che il vino, spedito senza essere stato ordinato, venisse scaricato all’indirizzo del destinatario, e che non vi fosse alcuna intenzione di praticare sconti né di riprendere indietro la merce».
E chi non comprende questo discorso «è ancora nella bambagia», commentano i sodali.
I viaggi in Germania di Pasquale Malena
La Corte, partendo dai racconti di Francesco Farao, perviene alla considerazione che il contesto nel quale è nato il rapporto di reciproci affari tra Pasquale Malena e i Farao è un contesto di cattive condizioni economiche dell’imprenditore «a causa delle quali si era indotto ad affidare la distribuzione del vino a persone vicine alla cosca». E nonostante le tesi difensive volte a dimostrare la solidità economica della ditta dell'imputato, i giudici riscontrano una pluralità di indizi che portano a ritenere il contrario, come «il contenuto di una denuncia formalizzata dallo stesso Pasquale Malena presso la Stazione di Cirò Marina per paralizzare l’incasso di due assegni bancari posdatati da lui emessi. Nella denuncia, lo stesso Malena ripercorreva la genesi dell’attività, dichiarando che l’azienda ereditata dal padre era fortemente indebitata…». L'imputato avrebbe partecipato all’attività sul campo, compresi i viaggi in Germania.
Sestito e Spagnolo «meri acquirenti di Zito»
Al contrario i fratelli Zito, è la tesi del collegio, «si sono limitati a vendere a Sestito e Spagnolo le linee di vino prodotte per loro conto, non prendendo parte in alcun modo alla successiva fase di commercializzazione e distribuzione e senza accordi che comprendessero margini sugli utili o altri benefici».
Si ravvisa che diverso sarebbe il rapporto instaurato da Zito con gli esponenti della cosca cirotana Giuseppe Sestito e Giuseppe Spagnolo che non sarebbero entrati negli affari della cantina ma erano «meri acquirenti di due linee di vino prodotte per loro conto ("Zu ’ Lorenzo”, dal nome del padre di Pino Sestito, e "Desiree”, dal nome della figlia di Spagnolo) e rispetto alla cui commercializzazione e distribuzione la casa vinicola non ha assunto alcun ruolo».
Sarebbe stato, dunque, un compito autonomo quello di Sestito e Spagnolo di piazzare il vino, come hanno fatto anche i Farao, «a discapito degli acquirenti, comunque costretti ad accettare offerte alle quali non era possibile dire di no, data la levatura dei soggetti da cui proveniva l’offerta».