Ha perso tutto. «L’azienda, la casa e quando anche la mia dignità è stata messa a dura prova, quando ho compreso che in fondo tutto è stato inutile – racconta – ho perso anche la fede nello Stato». Salvatore Barbagallo è testimone di giustizia da ben diciassette anni. Siciliano d’origine, calabrese d’adozione, un giorno sul suo cammino incrociò il clan Mancuso e «fu l’inizio della fine». Si occupava di trivellazioni. Prima dovette “regalare” il suo lavoro, poi fu bersagliato dal racket. «Un attentato dopo l’altro e nessuno mi pagava più, fui così ridotto alla fame – ricorda – e quando la mia casa fu venduta all’asta, denunciai».

Della fiducia nelle istituzioni, chi non ce l’ha, a certe latitudini se ne deve dotare. «Mi chiamò la Squadra mobile di Catanzaro e mi dissero che per la mia sicurezza sarebbe stato meglio allontanarmi da qui, ma io – continua l’ex imprenditore – rifiutai. Ho sempre creduto che fosse importante restare. Avevo iniziato un percorso, che senso avrebbe avuto fuggire? E poi era una prova anche per lo Stato, che doveva dimostrare di non abbandonare chi aveva avuto il coraggio di parlare». E poi? «Dopo diciassette anni e un’infinità di processi nei quali sono stato chiamato a testimoniare, non so più neppure che fine abbiano fatto le mie denunce». “Ultimo incanto”, per esempio. Fu un’indagine che fece luce sugli intrallazzi attorno alle aste giudiziarie del Vibonese. Il 13 maggio del 2010scattò il blitz della Squadra mobile di Vibo Valentia, l’8 ottobre del 2012 in rinvio a giudizio per dieci imputati. Nel marzo del 2021, dopo ben nove anni per celebrare il primo grado, il Tribunale di Vibo Valentia dichiarò l’intervenuta prescrizione del reati. «E questa – dice Salvatore Barbagallo – la chiamate giustizia?». Quella resa nel procedimento “Ultimo incanto”, fu la prima ma non l’ultima delle sue denunce

Oggi rilegge a ritroso la sua storia. «Io ho denunciato mafiosi, gente di peso, grandi famiglie di ’ndrangheta – continua Salvatore Barbagallo – non ho denunciato quattro rubagalline. Eppure parte delle mie denunce sono state trasferite dalla Direzione distrettuale antimafia alla Procura ordinaria e negli anni sono evaporate. L’unico processo di mafia che è arrivato conclusione è stato Costa Pulita, ma il boss che ho denunciato, Nino Accorinti, oggi è fuori dal carcere. Chiedo di sapere perché tutto questo». Il testimone di giustizia è stato ricevuto dal procuratore capo di Vibo Valentia Camillo Falvo, il cui arrivo a Vibo Valentia è sin troppo recente per salvare denunce e processi datati lasciati per lustri ad ammuffire tra le mille carenze, principalmente d’organico, in un avamposto giudiziario sul quale mai il Consiglio superiore della magistratura ha riservato un’adeguata attenzione.

«Ma non è solo questo – continua Barbagallo – c’è altro. Malgrado qualcosa, a titolo di risarcimento, io l’abbia avuta, vi assicuro che davvero, in un certo momento, sono stato ridotto alla fame. Io ero bravo nel mio lavoro, poi ho finito col fare addirittura il badante e mia moglie le pulizie in casa di persone anziane. Quanto alla sicurezza, poi, ho le forze dell’ordine che ogni tanto vengono a controllare sotto casa che sia tutto a posto, ma quando, in tutti questi anni, mi sono rivolto alla Prefettura per lamentare ciò che non andava, spesso venivo trattato con fastidio».

C’è una vicenda che, dal suo punto di vista, è metaforica delle sorti a cui sono rassegnati i testimoni di giustizia: «Guardate quello che hanno fatto a Pino Masciari. Gli hanno tolto la scorta. Come? Ad uno così, uno dei primi a denunciare, uno che è stato costretto ad andarsene via perché l’avrebbero di sicuro ammazzato, ora gli togli la scorta? Ma come, non è proprio lo Stato a dire che “la ‘ndrangheta non dimentica”? E a Masciari oggi si toglie la scorta? È un messaggio devastante che viene lanciato a chi è vessato dal racket e dall’usura. Dobbiamo lasciare che qualcuno ci dica “Bravo, hai denunciato, ed ecco la fine che hai fatto». Tornasse indietro, dunque, lo rifarebbe? «Probabilmente sì – conclude Salvatore Barbagallo – ma non come atto di fiducia, ma per disperazione, perché ad un certo punto, quando sei tartassato in un certo modo, non hai via d’uscita e sei costretto a denunciare, perché o ti ammazzano o ti ammazzi. È triste, però. È davvero triste».