Gianluca Callipo, Pietro Giamborino e Giancarlo Pittelli. Senza dubbio erano loro gli imputati eccellenti del maxiprocesso “Rinascita Scott”. Quelli che in termini ideali rappresentavano, in ordine crescente, la progressione di potere della ’ndrangheta vibonese, organizzazione capace di infiltrarsi e creare rapporti con settori della pubblica amministrazione, della politica regionale e di quella nazionale. Un teorema che almeno per due terzi non ha funzionato.

Leggi anche

In attesa di leggere le motivazioni della sentenza di primo grado che ha completamente scagionato Callipo, assolto in buona parte Giamborino e condannato il solo Pittelli, ripercorriamo quelle che erano le accuse mosse nei loro confronti dalla Dda di Catanzaro nonché i momenti più significativi che i tre hanno condiviso in questo quadriennio di passione: l’arresto, la lunga fase del processo, il giorno della verità in aula. La prima, non ancora l’ultima.  

Il sindaco

Alla fine del 2019, Gianluca Callipo è un personaggio in ascesa nel contesto amministrativo regionale. Giovane sindaco di Pizzo Calabro e presidente di Anci, quasi un predestinato a calcare palcoscenici politici più prestigiosi. Tutto sembra dalla sua parte, ma nessuno immagina che il suo tempo sta per fermarsi. E che il conto alla rovescia è stato già attivato. Il 19 dicembre di quell’anno, infatti, pure lui finisce in carcere con le accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e diverse ipotesi di abuso d’ufficio sempre aggravate dalla mafiosità. La Dda di Catanzaro lo inquadra come un politico al servizio della cosca di Pizzo e di quella di San Gregorio d’Ippona che, in cambio di favori, avrebbero contribuito alla sua vittoria alle elezioni comunali del giugno 2017. Accuse che, alla prima occasione utile, il diretto interessato respinge con fermezza. Durante il processo, infatti, Callipo riferisce di essersi sempre «tenuto alla larga» da certi ambienti, citando a mo’ d’esempio la sua mancata partecipazione al matrimonio di un caro amico che aveva in Saverio Razionale il proprio compare d’anello. Dopo sette mesi trascorsi dietro le sbarre, a luglio del 2020 la Corte di cassazione annulla l’ordinanza di custodia cautelare emessa nei suoi confronti, riportandolo in libertà. Per lui, la Procura di Catanzaro aveva chiesto diciott’anni di reclusione. I giudici lo hanno assolto «per non aver commesso il fatto». Il tempo, per lui, può riprendere a scorrere con normalità.   

Leggi anche

Il consigliere regionale

Con Pietro Giamborino, gli inquirenti si sono rifatti al Dna. L’idea era che la sua appartenenza alla ‘ndrangheta fosse anzitutto genetica, in ragione di un paio di zii e qualche cugino affiliato al clan di Piscopio. Ed è in quell’alveo che, si sospettava, Pietro avesse costruito le proprie fortune politiche. Nel mirino della Dda non c’era un’elezione specifica. Era tutta la sua carriera, dalla culla ai giorni nostri, a essere ritenuta viziata dall’ombra funesta.  Per dimostrarlo, sono partiti da lontanissimo: dal 1990, epoca in cui la polizia lo ferma mentre è in auto insieme a Pantaleone Mancuso alias “Vetrinetta”. A ciò si aggiungevano intercettazioni da cui emerge una certa fascinazione dell’ex consigliere regionale di Margherita e Pd per alcuni vecchi boss e, più in generale, per l’onorata società di un tempo che fu. E poi i pentiti, il piatto forte. Secondo Andrea Mantella e Raffaele Moscato, Giamborino altro non era che «un uomo d’onore della vecchia ’ndrangheta di Piscopio». Accuse che il diretto interessato ha provato a contrastare durante il suo esame in aula, anche con toni ieratici: «Da cattolico – ha detto – porto questa croce. In Paradiso non si va in carrozza». Rischiava una condanna a vent’anni di carcere. Non c’era nel suo caso una predestinazione al Male, i giudici lo hanno escluso assolvendolo dall’accusa di associazione mafiosa. La condanna a un anno e sei mesi per un reato residuale lo vedrà impegnato in Appello a difendere la propria reputazione. L’anima, invece, quella è salva. 

Leggi anche

Il parlamentare

Era accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, rivelazione di segreti d’ufficio e abuso d’ufficio. La sintesi più efficace, riguardo alla sua posizione processuale, però, l’aveva fatta proprio lui: «Persona di collegamento tra la criminalità organizzata, il mondo politico, il mondo degli affari, il mondo della massoneria, in particolare delle logge coperte». Così lo stesso Giancarlo Pittelli rappresentava in aula le accuse mossegli dalla Dda, quelle che oggi gli sono valse una condanna a undici anni di carcere a fronte dei diciassette chiesti dall’ufficio di Procura.  Di “Rinascita Scott” è stato senza dubbio il personaggio chiave. Non solo per i suoi trascorsi da parlamentare e per il peso esercitato nell’avvocatura calabrese, ma soprattutto per il pathos che ha scandito tutte le fasi della sua stagione da indagato e poi da imputato. La misura del carcere e quella dei domiciliari, nel suo caso, si sono alternate più volte come le stagioni, intervallate da periodi di libertà e con in mezzo tentativi ripetuti di riportarlo dietro le sbarre. La lettera di supplica inviata all’allora ministro Mara Carfagna e ritortasi poi contro di lui è il capitolo più drammatico della saga. Per gli inquirenti è lui il grande vecchio, quello che passava al clan Mancuso informazioni coperte da segreto istruttorio, l’uomo sorpreso a dialogare in modo più che confidenziale con il boss Luigi Mancuso, il penalista colluso contro il quale un esercito di pentiti punta il dito. Al blocco di dichiarazioni utilizzate in fase d’indagine, se ne sono aggiunte altre a processo in corso. «Il pavone su cui tutti sparano» aveva sibilato in aula uno dei suoi difensori, Salvatore Staiano. Se ne riparlerà in Appello.