Il sangue racconta. Per chi lo sa leggere e interpretare è una miniera di informazioni
E il sangue di Maria Chindamo – imprenditrice di Laureana di Borrello fatta sparire il sei maggio 2016 – traccia un racconto che è un crescendo di tensione e paura.
Il calvario di Maria Chindamo, e della sua famiglia, è stato ricostruito davanti alla Corte d’Assise di Catanzaro – presidente Massimo Forciniti – dal capitano Alessandro Bui, all’epoca dei fatti al comando del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Vibo Valentia.
Per questo delitto, compiuto con la collaborazione di persone ancora ignote, è imputato Salvatore Ascone, un imprenditore agricolo con un terreno, a Limbadi, adiacente a quello della vittima.

L’appuntamento mancato

Maria, il sei maggio 2016, doveva incontrare, alle sette del mattino, un operaio suo dipendente, Dimitrov Sasho Emilov, che viveva in un’abitazione rurale all’interno del fondo agricolo che l’imprenditrice gestiva. Dovevano vedersi alle sette del mattino per eseguire un trattamento sui kiwi coltivati nella proprietà.
Maria non si presenta a l’operaio chiama il fratello della donna, Vincenzo Chindamo che a sua volta telefona alla figlia di Maria Chindamo per sapere se la sorella fosse uscita.
La risposta è affermativa: l’imprenditrice era uscita presto quella mattina.
Parte la prima telefonata di Vincenzo Chindamo al 112. Sono le sette e trenta del mattino.

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Sangue e capelli sulla macchina

Le telefonate con i carabinieri si susseguono una dopo l’altra. Nel frattempo Vincenzo Chindamo è giunto davanti al fondo di Limbadi e ha trovato una scena raggelante: l’auto della sorella sta col motore acceso dinnanzi al cancello della tenuta ed è macchiata di sangue. L’autoradio è anch’essa accesa a volume alto e una chiocca di capelli lunghi è tenuta attaccata da un grumo di sangue sullo sportello anteriore.
Allarmato e spaventato Vincenzo Chindamo chiede con urgenza che arrivino i carabinieri.
Ma il sangue, come rileveranno anche i militari, non si trova solo sull’auto, si trova anche sul muretto di recinzione, che porta all’ingresso della proprietà di Maria Chindamo.
Nella macchina ci sono la borsa, i telefoni cellulari, il portafoglio.
Dunque l’imprenditrice non era stata aggredita per una rapina. Il cancello della proprietà era chiuso e le chiavi si trovavano «al di là del cancello», dice il capitano Bui rispondendo alle domande del pm Annamaria Frustaci.

Trascinata via «ancora viva»

Da questi dati, da queste tracce, i carabinieri disegnano le dinamiche dell’accaduto: Maria è stata probabilmente aggredita alle spalle prima di aprire il cancello. Dalla ricostruzione delle tracce di sangue gli investigatori giungono alla considerazione che «l’aggressione e la sorpresa degli aggressori ha fatto scaraventare le chiavi al di là del muretto, già all’interno della proprietà», dice Bui. Poi, dopo essere stata colpita, la vittima ha lasciato l’impronta delle proprie dita sporche di sangue sul cofano anteriore della sua auto che è il punto più vicino al luogo dell’aggressione.
In quegli attimi concitati e drammatici «verosimilmente nel tentativo di avvicinarsi alla portiera della macchina», Maria si è poggiata sul paraurti e qui ha lasciato un’altra traccia di sangue e alcuni capelli.
Il sangue racconta: cofano, freccia, maniglia e la portiera. «… è verosimile ritenere che la vittima stesse provando ad avvicinarsi a rientrare nella macchina», spiega Bui.

Maria provava a fuggire ma viene ripresa e «scagliata a terra, perché ci sono una serie di schizzi di sostanza ematica, quindi ci sono tracce ematiche da schizzo sul muretto a secco posto alla sinistra dell’autovettura».
Le ultime tracce di sangue parlano di «trascinamento». È stata trascinata via, era a terra e l’impronta, l’ultima, che ha lasciato sul parafanghi posteriore, fa ipotizzare all’investigatore che in quel momento «è ancora viva».

La ricostruzione del movente

Questo racconta il sangue di Maria Chindamo: il suo calvario.
Del dopo sappiamo ciò che hanno riportato i collaboratori di giustizia: dopo essere stata uccisa l’imprenditrice è stata data in pasto ai maiali. I poveri resti sopravvissuti sono stati mescolati al terreno con la trincia di un trattore.
Tutto questo orrore nascerebbe, ricostruisce la Dda di Catanzaro, per due ragioni: la volontà di vendetta dell’ex suocero di Maria, Vincenzo Punturiero (deceduto), che l’avrebbe ritenuta responsabile del suicidio del figlio, Ferdinando Punturiero, avvenuto l’otto maggio 2015, in seguito alla separazione dalla moglie. Al fatto di sangue, inoltre, avrebbe partecipato Salvatore Ascone, 58 anni, spinto dalla prospettiva di acquisire i terreni di Limbadi della Chindamo, in proprio favore e in favore anche di una costola della famiglia di ‘ndrangheta Mancuso denominata Mbrogghja.