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Si autoaccusa di aver ucciso anch’egli per la cosca Alvaro. A pochi mesi dal ritorno in libertà, salta il fosso, confessa e si rassegna ad un futuro in carcere, unico modo – ammette – per rompere definitivamente con la ‘ndrangheta.
I verbali del pentito Simone Canale dissecretati sono pochi ma gravidi di racconti preziosi per gli inquirenti. Che sia un collaboratore credibile lo svelano i primi riscontri, come quelle armi ritrovate nel feudo di Sinopoli, proprio su sua imbeccata. Offre, ai pm, anche una lista di condannati a morte. C’erano, tra questi, i rivali del suo mentore, Nino Penna, e c’era soprattutto, chi con coraggio e onestà, prendendo in gestione i beni confiscati alla ‘ndrangheta non si piegava alla legge del clan, come Domenico Luppino. Anzi, proprio riguardo all’imprenditore sotto scorta, ammette al pm antimafia di Reggio Calabria Giulia Pantano: «Dovevo ucciderlo io».
Tra i verbali di Canale c’è il racconto di una subcultura mafiosa che a certe latitudini resta legata a regole arcaiche: la donna, per esempio, dice, nella famiglia di ‘ndrangheta mangia dopo l’uomo. Anzi, a volte mangia solo gli avanzi. Ci sono asseriti codici d’onore e perfino modi di comunicare che non t’aspetti. Ecco, ad esempio, cosa racconta il 14 febbraio 2016 ai magistrati: «Voglio dire che Penna Antonino mi ha detto che spesso le ambasciate dall’esterno all’interno del carcere e viceversa avvengono tramite radio. Sono peraltro certo che alle ore 10.50 del 19 agosto 2015 su Rtl, programma radiovisivo, è stato inviato un messaggio da parte degli Alvaro. L’interlocutore era un soggetto che si è presentato come Alvaro Giuseppe e sentii che disse “sono sulla Salerno Reggio e sto ‘nchianando ora un saluto ai paesani”. Io ho compreso che si tratta di un’ambasciata tra un soggetto libero per qualche detenuto perché ero stato reso edotto dal meccanismo da parte di Penna Antonino».