Il broker globale della cocaina Vincenzo Pasquino ha consegnato ai magistrati della Dda di Reggio Calabria un piccolo memoriale con un elenco di episodi legati alle attività di narcotraffico. Quel foglio può diventare un incubo per i clan calabresi: le ’ndrine della Locride e di Torino hanno fatto affari per anni con il neo pentito. Dal Brasile a San Luca, da Milano ad Anversa, Pasquino conosce circostanze precise e sa chi muove i fili di un business miliardario. La sua collaborazione può essere la chiave per scardinare un pezzo dell’economia sommersa che ha capi nell’Aspromonte più profondo e capitali nei centri finanziari di mezzo mondo.

Una rete globale per muovere il denaro: il modus operandi dei broker

Qualche esempio di come girano gli affari, Pasquino lo consegna ai primi verbali della sua collaborazione con la giustizia, depositati nel processo Eureka, in corso davanti al Tribunale di Locri. Il suo racconto illumina e ricostruisce le contestazioni mosse dall’antimafia reggina nell’inchiesta da cui nasce il procedimento giudiziario. Il pentito ammette i propri traffici e li tratteggia nel dettaglio. Il quadro è ancora pieno di omissis, altro segnale di quanto le dichiarazioni siano potenzialmente esplosive. «Stefano Nirta (una delle persone coinvolte nell’inchiesta Eureka, ndr) ci ha effettivamente mandato 180mila euro per acquistare una partita di cocaina dai fornitori brasiliani». Di solito, continua Pasquino, «i soldi necessari per pagare la cocaina arrivavano da San Luca a Torino o a Milano, tramite persone incaricate da Stefano Nirta, tra cui Antonio Giampaolo». Proprio da Torino o da Milano, «tramite i cosiddetti “doleiro” (si può tradurre in “cambiavalute”, ndr) partivano i soldi per tutto il mondo, trattandosi di un’organizzazione che si avvale di persone di origine cinese, araba e di altre nazionalità». Il sistema utilizzato per riciclare non prevede una movimentazione fisica di denaro: il denaro depositato presso i broker non lascia il Paese di partenza, è il solo valore nominale a essere trasferito all’altro broker presente nel Paese estero.

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«Nel caso dei 180mila euro – continua Pasquino – i soldi di Nirta arrivarono alla “casa di cambio” di San Paolo, gestita da tale (omissis) di cui spesso ci servivamo per la trasmissione del denaro». In realtà, il «reale proprietario» di quel cambiavalute «era un importante narcotrafficante brasiliano».

Lo scambio avviene consegnando un token, cioè una banconota segnata per essere riconoscibile, a un emissario che, «verificata la corrispondenza, ci consegnava la somma trasmessa». Il broker pentito rivela ai magistrati a chi avrebbe consegnato il token, cioè alla persona «che avrebbe dovuto fornire lo stupefacente per il quale Nirta aveva pagato». È la conferma del sistema utilizzato per movimentare grosse cifre di denaro che l’inchiesta Eureka aveva individuato e anche di come questo metodo si basi su appoggi e complicità globali: sono coinvolti sistemi criminali di quattro continenti.

Narcos globali: il Tamunga, il turco e i platioti

Quanto sia estesa la rete viene confermato, ancora, da Pasquino: «Del gruppo facevano parte Rocco Morabito», il famigerato Tamunga, boss di Africo arrestato nel 2021 in Brasile dopo una latitanza dorata. E poi un uomo che resta “omissis”, «detto “Cetto” o “Marcello”» e un turco «detto il “re della frontiera”» nonché «i platioti», tra i quali nel verbale viene citato Pino Grillo, anche lui coinvolto nell’operazione Eureka.

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Pasquino: «Trafficavamo con i Nirta dal 2017»

Il pentito approfondisce anche la nascita e la natura dei rapporti del suo «gruppo» con la famiglia Nirta di San Luca: «I rapporti iniziarono nel 2017 perché avevano bisogno di una “salita” dai porti del Brasile». Un clan ne sostituisce un altro, visto che con le ’ndrine di Platì si era verificata una «rottura». È così che a Pasquino in Sudamerica si chiede «di trovare persone serie con cui lavorare». «È in questo momento – dice ai magistrati – che iniziarono i rapporti con il gruppo di Nirta». La prima riunione «per stringere un accordo» si fa a San Paolo con «Sebastiano Giampaolo».

Il compito di Pasquino «era quello di garantire il passaggio dei soldi. Il 50% della cocaina che arrivava a Gioia Tauro veniva venduta dal gruppo di San Luca (prevalentemente al Nord Italia e in Sicilia». I fonitori la vendevano a Pasquino& Co «a 5.000-5.500 euro al chilo che divenivano 7.000-7.500 euro al chilo con il prezzo della salita», cioè dell’uscita dal porto. Il narcotrafficante pentito considera un sostanziale fallimento la cooperazione con i Nirta: «Non abbiamo guadagnato nulla, non abbiamo mai spartito i proventi in quanto i carichi andarono persi. Fu anche una questione di sfortuna, nel senso che i carichi andarono male per cause indipendenti dalla loro volontà».