Riccardo Malaspina conosce molto bene i “rumori” di un reparto di Rianimazione. Da esperto del settore, ha vissuto decenni scanditi da allarmi, urgenze e lunghi e preoccupanti silenzi. Eppure, quando il Covid-19 ha deciso di lanciargli la sfida più difficile, si è trovato a fare i conti con una realtà capovolta: il paziente era lui ed i macchinari davano il ritmo alle sue giornate. «Non mi ha fatto impressione – si affetta a precisare – perché le ho sempre vissute dalla parte opposta».

 

Il dottor Malaspina è uno dei pilastri dell’ospedale civile di Mantova. Lui, reggino doc, ha vissuto 30 anni nella città dello Stretto, prima di trasferirsi nella città lombarda dove è responsabile della Terapia del dolore.

 

La scoperta del Covid-19

È l’inizio di marzo quando accusa i primi malesseri: «Parlo con qualche collega, di quelli che si interessano di più di queste situazioni, fra gli infettivologi. Lavorando in laboratorio non possiamo rispettare le distanze, anche se indossiamo la mascherina chirurgica. Dico loro di avere l’impressione di non star bene». La febbre è bassa, circa 37.5, e per qualche giorno è gestita a casa. Il dottore chiede di fare un tampone, ma la risposta è negativa: «Mi dicono di no, in quelle condizioni bisogna aspettare ancora qualche giorno». La mancanza di segnali derivanti da problemi respiratori svia la situazione. «Il venerdì insisto perché sto male. È il 13 marzo e mi viene fatto il tampone. L’esito arriva domenica 15 e risulto positivo». Sono momenti complicati: «Mi chiamano per fare una rx torace e gli altri esami e mi rimandano a casa con una terapia. Fra domenica e lunedì, però, mi accorgo che la situazione sta precipitando. In casa mi isolo per evitare problemi. Capisco che la cosa mi sta sfuggendo di mano e chiedo di essere ricoverato nel reparto di Malattie infettive». La situazione del medico non migliora ed il martedì successivo viene ricoverato nel reparto di Rianimazione. Lui, professionista esperto, diventa paziente: «Chiedo ai colleghi di rallentare l’intubazione, poiché la respirazione con la macchina manteneva buoni valori di saturazione». Il quadro, però, non migliora: «Mi devono intubare per otto giorni».  

 

L’esperienza nella Rianimazione

Un medico ricoverato nel reparto nel quale è abituato a lavorare: «Non nascondo che i primi giorni trascorsi, quando ero sedato, siano stati i più piacevoli del periodo in Rianimazione. Mi sembrava di essere un giardino, in un eden. Rispondevo ogni tanto agli stimoli vocali e percepivo che vi era vita al di fuori di ciò che stavo passando. Ma ero rilassato». I problemi iniziano quando vengono somministrati i farmaci: «Sono stati giorni fastidiosi, perché avevo infermieri che mi placcavano, in quanto tentato di toccare i presidi». Finalmente arriva il primo aprile e la decisione di estubare: «Da lì inizia il calvario con la maschera per la ventilazione. È vero: non è invasiva, ma bisogna abituarsi perché c’è un apparecchio che manda l’aria, ma tu devi dare un input».

 

Il momento che cambia la storia

È il 3 aprile la data che fa da spartiacque nella storia del dottor Malaspina: «Avevo solo l’ossigeno come supporto. Ma rispetto agli altri pazienti, facevo molta più fatica. Poi è arrivato una sorta di miracolo. Improvvisamente, mentre mi trovato all’apice della montagna e potevo scendere da una parte o dall’altra della sommità, deciso di percorrere la parte giusta. Il miglioramento è progressivo ma veloce. In quattro giorni ho ottenuto importanti risultati, andando poi nel reparto specialistico di terapia intensiva pneumologica, dove l’indice di attenzione è più modesto. Lì ho continuato a ventilare e i parametri sono migliorati, così come i controlli ematici. Il sabato santo, prima di Pasqua, sono stato dimesso e sono riuscito a festeggiare a casa con i miei».

 

Amici, colleghi e famiglia

Il dottor Malaspina ha soprattutto un pensiero: «La gratitudine verso i miei colleghi che mi hanno seguito con grande attenzione, sebbene dai loro volti si leggesse la paura per il risultato da raggiungere». Ma cosa si porterà dietro di tutta questa vicenda: «L’ambiente della Rianimazione che è sempre un po’ freddo e distaccato. È pieno di allarmi, episodi, pazienti che stanno per morire. Tutto ciò non mi fa impressione, ma il ricordo di quei giorni è molto vivo».

Malaspina ha pensato anche di non farcela: «Sì, ho vissuto momenti di scoramento perché ero stato abbandonato dalle forze e pensavo che fosse la volta buona. È stato un momento di particolare ansia ed ho anche rischiato di fare capricci ed essere esuberante. Non so se ciò dipenda dalla conoscenza di quello che rischiavo o da una agitazione ulteriore». Malaspina ricorda i momenti peggiori: «C’era buio e scoramento. Devo dire che questa situazione mi ha fatto comprendere quanto i miei ragazzi e mia moglie siano stati forti dal punto di vista della reattività. Mia moglie, poi, è stata una roccia, sebbene credo che la presenza di due figli maschi abbia contribuito a renderla più serena. Persino mia figlia, che studia Medicina a Messina, è venuta a trovarmi».

 

Il legame con Reggio Calabria

Il legame di Riccardo Malaspina con Reggio Calabria è molto forte: «Ho mantenuto i rapporti con i miei fratelli, amici e compagni di scuola, ma anche tutta la mia famiglia. Quando ho avuto la capacità di guardare sul cellulare, c’erano circa 400 WhatsApp. Non ho Facebook, non sono tecnologico, ma mia moglie ha avuto messaggi persino dall’America». Anche per Mantova ci sono parole molto belle: «Qui tanta gente è anziana e si affeziona molto con manifestazioni che non mi sarei aspettato da una città del nord. Certo, subisce molto l’influenza della vicina Emilia».

Quali i progetti per il futuro? «Mi sarebbe piaciuto scendere giù in Calabria e stare un po’ al mare con i miei parenti. Questo non sarà possibile velocemente, perché dovrò fare dei controlli. Sono molto preoccupato di quello che può essere il rientro al lavoro. Rimane quest’ansia di essere capace di tornare libero da qualsiasi perplessità o ricordo. Pensi che avevo sapori, ricordi e flash che non mi lasciavano tranquillo. Ho iniziato a dormire, solo dopo 4 o 5 giorni che sono rientrato a casa».